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 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Rifugiati, pecore e banditi islamici. La linea virtuale tra Niger e Mali

Primo giorno

Edoardo: Sì, confesso di essere uno di quelli che fino a due mesi fa non distingueva il Niger dalla Nigeria. Ma studiando bene la cartina dell’Africa appesa al muro, eccola qui, lampante, a colori, la ragione per cui oggi il Niger è il crocevia a cui tutti guardano con allarme: questo vasto Paese senza sbocco sul mare è incastrato in mezzo agli Stati più caldi dell’Africa Occidentale e del cosiddetto Sahel, la lunga fascia orizzontale subsahariana che va dall’Atlantico al Mar Rosso, cento milioni di abitanti, e sempre meno acqua. A Ovest il Mali, la cui disintegrazione l’esercito francese si affanna invano a tamponare dal 2013, e il Burkina Faso, attraverso cui passano le rotte di migranti dal Golfo di Guinea; a Sud Benin e Nigeria (il che vuol dire Boko Haram e il fuggifuggi dalle incredibili violenze perpetrate dalle sue milizie), a oriente il Ciad e a Nord la frontiera (si fa per dire, una linea tracciata nel deserto) con l’Algeria e con la Libia.

Niger, il punto di passaggio formicolante di tutto quanto si muove oggi nell’area: rifugiati (almeno 170.000), migranti, armi, capitali occidentali e cinesi, funzionari e militari di mezzo mondo. E le miniere di uranio che riforniscono le centrali atomiche francesi, garantendo acqua calda nei termosifoni e nei bidet che pure a Parigi non hanno. 

Niamey è perennemente avvolta da un pulviscolo sabbioso. Alberi, persone, automobili e motociclette, frutta e merci esposte sui banchetti per strada sono coperte da uno strato sottile, come dopo l’eruzione di un vulcano. L’albergo è in cima a un’altura che dà sul fiume Niger, e da qui si può vedere il lungo ponte che lo attraversa gremito di gente: è una manifestazione studentesca, imponente, ma all’apparenza molto pacifica. Dice un nigerino con un filo di sarcasmo, «se non rompono le vetrine a sassate, come in Europa, è perché ci sono poche vetrine». Gli studenti scendono in piazza perché il governo spende nella sicurezza (leggi: repressione) invece che nell’educazione e nella sanità.

Secondo giorno


Francesca: Il Niger è uno dei Paesi più poveri del mondo (alcuni dicono il quarto, altri il quinto), basta guardarsi intorno per crederci, ma c’è un altro elemento evidente e non segnalato dalle classifiche mondiali: i nigerini sono forse uno dei popoli più belli sul pianeta. Uomini e donne sono quasi tutti belli. Aggraziati, eleganti. Come i musicisti che incontriamo stamattina, riuniti sotto un capanno all’aperto in un giardino senza fiori né erba. Ci accovacciamo sulle stuoie all’ombra di un baobab e li ascoltiamo suonare i loro strumenti fatti di pelle di capra. L’unica donna, Laetitia, originaria delle Isole de La Réunion, canta e suona una tastiera dai tasti intermittenti, alcuni funzionanti, altri no, accanto a lei il più anziano del gruppo intona una sorta di blues parlato, agitando le braccia e poi ballando. Si chiamano Studio Shap Shap e sono bravissimi. È un benvenuto gentile di breve durata, non siamo venuti fin qui per ascoltare musica, la vera missione deve ancora cominciare.

Andiamo a visitare il «Guichet unique», il centro di servizi per i rifugiati. Qui ricevono assistenza sanitaria, legale, educativa, in questo ufficio hanno la possibilità di denunciare soprusi e sfruttamenti potendo contare su riservatezza e protezione. Arrivano in molti, una media di cinque famiglie al giorno. 

E: Vengono dal Mali, dal Togo, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio. Alcuni di loro si sono spinti fino nel cuore del Niger, ad Agadez, ai confini col deserto, con l’idea di proseguire verso la Libia e oltre, ma hanno capito che non ce l’avrebbero fatta mai e allora hanno ripiegato verso la capitale per chiedere asilo. I loro guai sanitari sono sempre quelli: malattie respiratorie nella stagione secca, le febbri malariche nella stagione delle piogge, severe infezioni urinarie. Certe volte sarebbe sufficiente avere in dotazione una zanzariera e imparare a installarla come si deve. Fuggono da ogni genere di catastrofe, calamità naturali, saccheggi, incendi, e proprio grazie ai loro racconti si comprende quanto sia labile la distinzione tra i cosidetti migranti economici e chi fugge da una guerra o da una campagna di pulizia etnica o religiosa. «Il luogo dove rischi di perdere la vita, purtroppo devi lasciarlo». Un congolese affabile sussurra: «Sì, anche qui in Niger la situazione è instabile… una polveriera, può scoppiare da un momento all’altro». Allora prevedete di spostarvi ancora? «E dove andiamo? Oh, no, io non voglio muovermi più neanche di cento chilometri… Almeno fin quando la situazione non precipiterà anche qui!». 

F: Nel cortile interno del centro mi siedo accanto a una donna ivoriana, parliamo in francese. È in attesa del visto per l’Europa. Vive i suoi giorni senza alcuna possibilità di decisione, ma dipendente da decisioni altrui. «Penso solo all’avvenire dei miei figli — mi dice — che possano continuare a studiare in Europa. Il resto non ha importanza». La sua valigia è pronta da giorni.

E: Un gruppo di eritrei, evacuati dalla Libia, viene ospitato in una «Case de passage», in attesa di essere trasferito in Francia. Sappiamo che voleranno per Parigi, tra una settimana, anche se non possiamo annunciarlo. La discrezione, in questi casi, è d’obbligo, per non rendere ancora più spasmodica l’attesa e più cocente la delusione per un eventuale rinvio.

Due ragazze in particolare hanno storie molto simili e terribilmente «classiche». Oromia è partita che aveva tredici anni, ora ne ha venti. Ha girato l’Etiopia, il Sudan, il Libano, poi daccapo in Etiopia, quindi Sudan, da lì in Egitto e infine in Libia, dove l’hanno incarcerata. Thenat invece ha ventidue anni, viene da Asmara, è stata sbattuta su e giù attraverso gli stessi Paesi africani per un anno e mezzo e poi è finita dentro in Libia per tre mesi, in cinque diverse prigioni, e lì è stata dura, molto dura: da trenta a cinquanta persone per cella. Finché quelli dell’Agenzia Onu sono riusciti a evacuarla, l’11 novembre scorso, qui in Niger. «Ah! Tutti i giovani in Eritrea sognano di passare il mare e andare in Europa…». Ha lo sguardo perso, triste, severo, gli angoli della bocca piegati all’ingiù, e manifesta un solo desiderio: «Voglio telefonare a casa! Sono sette mesi che non sento nessuno». Ma sarebbe molto pericoloso sia per lei sia per la sua famiglia laggiù. Tutta la nostra frammentata conversazione si svolge sul filo del non-detto, di ciò che le ragazze tacciono, e comunque drammaticamente esprimono, tacendolo. 

I Paesi che dovrebbero prestarsi ad accogliere questi rifugiati, oltre la Francia, sono la Svizzera, la Svezia e il Canada. 

Terzo giorno 

E: Veniamo guidati attraverso corridoi dipinti di verde brillante e illuminati al neon degli uffici dove si esaminano le domande di asilo. Il responsabile ha un nome quasi brianzolo, si chiama Malangoni: è un uomo bello, elegante, e parla un francese ricercato, strutturatissimo. Ma come fa il Niger a essere così ricettivo, coi migranti e i rifugiati, mentre ci sono Paesi europei che erigono muri per tener fuori poche centinaia di persone? Monsieur Malangoni pazientemente ci spiega che «non si ha un particolare merito nell’accogliere uno straniero che fugge dal suo Paese, qui in questa parte dell’Africa… perché costui, a ben pensarci, non è affatto uno straniero» o non viene percepito come tale. Le nazioni che circondano il Niger sono abitate dagli stessi popoli, vi si parla un po’ dappertutto una lingua comune, il kanuri, e non è infrequente che di due fratelli, uno stia in Niger e l’altro in Nigeria, oppure, vista la poligamia, che uno abbia una moglie di qua e un’altra di là ( Malangoni ride sotto i baffi ). Insomma la frontiera è un fatto amministrativo e poco più. La solita frase «siamo tutti fratelli», detta con estrema leggerezza da Malangoni, non suona affatto retorica, ma concreta. 

F: Di questa penosa condizione dello spirito, l’attesa, oggi siamo prigionieri anche noi: è previsto per la giornata l’arrivo dell’aereo che porta in salvo le persone evacuate dalle prigioni libiche, ma non sappiamo se e quando atterrerà. Facciamo un giro per la città non-città e scattiamo fotografie, raccogliamo immagini. Strade perlopiù sterrate, baracche, edifici sgangherati, assenza di segnaletica stradale. Non esiste un monumento oltre l’imponente moschea finanziata da Gheddafi, non esiste un centro. Le insegne delle bottegucce dipinte a mano, con un commovente e accurato stile naif, Coiffeur , Atelier de Couture , Bijouterie Touareg , i muri rosso mattone con su scritto «Défense d’uriner», le motociclette coreane scassatissime e le biciclette, e soprattutto i bambini. Numerosissimi. È la cosa che più mi salta agli occhi tutte le volte che mi trovo in un Paese povero. La loro chiassosa presenza, sempre più rara da noi, qui è predominante. 

E: Di ritorno a Niamey da una breve gita in piroga sul fiume Niger, riceviamo la notizia che l’aereo previsto dalla Libia stasera non arriverà. Doveva avere a bordo 74 persone evacuate d’emergenza dalle prigioni di Tripoli: cinquantuno bambini quasi tutti «unaccompained», cioè senza famiglia, ventidue donne e un uomo. Pare che alcune milizie abbiano mitragliato un aereo sulla pista di atterraggio. 

Quarto giorno

F: Ci alziamo che è ancora buio per partire alla volta di Agadez, con un volo del World food program. Insieme a noi c’è Alessandra Morelli, rappresentante dell’Unhcr in Niger: dietro tutte questo delicatissime operazioni c’è il suo instancabile operato e la sua totale abnegazione. Agadez, a Nord, ai confini col deserto, è una tappa fondamentale per i flussi migratori, un corridoio strategico per l’agognato passaggio in Libia, ed è qui che si è sviluppato un fiorente commercio amministrato dai passeurs , i trafficanti di migranti, che dal 2015 è stato messo fuorilegge. Il governatore di Agadez, elegantissimo nel suo caftano bianco, si dice contento di averci qui: «Mi piace che la gente veda da vicino ciò che accade qui». E nel congedarci ci regala una sorta di benedizione: «Il deserto vi offrirà serenità». Corriamo all’incontro con il Sultano dell’Aïr, nel suo palazzo a due passi dalla famosa moschea, col minareto di fango filmato da Bernardo Bertolucci ne Il tè nel deserto . Ci accoglie seduto su un trono che sembra provenire dalla scenografia di un set televisivo. Ha il volto coperto ed è abbigliato con uno sgargiante costume touareg. Non si lascia andare a grandi discorsi, ma si presta a farsi fotografare per la tradizionale stretta di mano. 

Gli ex passeurs ci attendono nella sede Unhcr già seduti al tavolo, schierati uno accanto all’altro. Sono accigliati, per non dire peggio. Dopo aver firmato un impegno scritto a cessare il loro traffico, hanno fondato un comitato per rivendicare i loro diritti finora, a loro dire, inascoltati. «La migrazione, insieme al turismo, era il pilastro dell’economia di Agadez. Di qui un tempo passava la Parigi-Dakar! Guadagnavamo molti soldi, adesso siamo disoccupati». Prezzo fisso di 120.000 franchi a migrante, dice lui (circa 180 euro). I bambini non pagavano. La media era di 25 persone per carico. La verità è che da quando è passata la nuova legge, il traffico non solo non si è interrotto, ma è diventato se possibile più pericoloso perché ha costretto i trafficanti, e dunque i migranti, a intraprendere percorsi alternativi nel deserto. Per raggiungere la Libia sono necessari quattro giorni, se il mezzo dovesse avere un guasto, la fine è certa. 

E: Il sindacalista più sveglio, aggressivo e nervoso ci spiega tutto quanto dall’inizio. «Guardate, quella dei migranti è una catena bene organizzata. Ha inizio, poniamo, ad Abidjan, in Costa d’Avorio, oppure in una qualsiasi città del Senegal. Lì i migranti pagano, e il passeur li porta a Bamako, in Mali, poi li affida al suo compare, che cura il trasporto fino a Gao, quindi un altro qui ad Agadez, e così di mano in mano arrivano a Sebha o in un altro posto nel deserto della Libia, e quindi al mare. Ma noi nigerini ci siamo mossi sempre dentro il Paese, non fuori. Era legale. Prima io potevo portare la gente a Nord, diciamo a Madama, è ancora Niger no? Quello che combinavano i miei passeggeri, una volta scesi dal mio bus, non erano fatti miei. Volevano attraversare la frontiera con la Libia? Affari loro. Ora è proibito trasportare gente in Niger, è diventato un crimine. Ti arrestano. Hanno sequestrato già 150 automezzi. E poi va ricordata un po’ di storia: noi ( intende i Touareg ), in questa zona, ci siamo ribellati contro lo Stato nigerino, negli anni Novanta ( con l’appoggio di Gheddafi ), e poi di nuovo dieci anni fa, ma alla fine abbiamo firmato la pace e accordi per avere gli stessi diritti degli altri. E adesso? Abbiamo grandi famiglie, figli, nipoti, chi li mantiene?». A chiudere il dibattito è un vecchio touareg ispirato: «Abbiamo parlato, pregato, pianto, cantato. Ma finora non abbiamo ottenuto nulla».

F: Torniamo a Niamey con le scarpe e anche il resto coperto di sabbia. La giornata, cominciata prestissimo, sembra non avere mai fine. Siamo in attesa febbrile dell’arrivo dei rifugiati da Tripoli, nervi tesi e lotta contro la stanchezza. Siamo in piedi da venti ore. Ci trasferiamo all’aeroporto (di nuovo lì!). Seduti nella sala d’aspetto, col sottofondo costante dei notiziari francesi che qui ascoltano incessantemente, contiamo i minuti che mancano allo sbarco dei rifugiati.

E: Alle sette di sera abbiamo saputo che l’aereo è partito da Tunisi alla volta di Tripoli. Le notizie arrivano via WhatsApp. Ora l’aereo sta facendo carburante prima di partire per Niamey. La liberazione dalle prigioni libiche sta per aver luogo. Detto per inciso, sono quei luoghi di detenzione, spesso infernali, in cui gli accordi italo-libici costringono i migranti in modo che non sbarchino più sulle nostre coste. Così il problema sembra risolto. Sul telefono arriva da Tripoli una foto dell’imbarco: e finalmente, la notizia che, per certo, quell’aereo partirà, sta partendo, è partito. Suonerà patetico, e senz’altro lo è, chiamarlo l’«aereo della speranza». Non molto tempo fa veniva chiamato «treno della speranza» quello che portava gli italiani poveri a lavorare in Germania o in Belgio. E alla fine nel cuore della notte sono arrivati. Atterraggio alle 2.47. Scendono dalla scaletta assonnati. Non c’è nulla da fare, è commovente, questa scena. Timidi, lo sguardo ora sorridente ora preoccupato, per non dire di più. Le ragazze della protezione si danno da fare, abbracciando i ragazzini e baciando le donne (che in realtà sembrano bambine anche loro) per fargli capire che ora, se dio vuole, sono al sicuro, che non devono temere altri inganni e sevizie. Più tardi un ragazzino di otto anni, che si è subito affezionato a Francesca (e lei a lui), sentendo parlare tigrino si spaventa e chiede, con lo sguardo all’insù: «Ma non è che ci portate all’ambasciata eritrea?» il che sarebbe come dire, ci risbattete all’inferno. Con parole e carezze gli si spiega che può stare tranquillo. 

F: L. fa parte di un gruppo ma in realtà è solo. Si aggira sperduto guardandosi intorno, immagino il carico di emozioni che lo hanno travolto e la fatica che il suo cervello di bambino deve compiere per dare un senso a ciò che lo circonda. Mi guarda da lontano, e avrei voglia di stringerlo forte ma ho quasi paura della sua fragilità, lui non è soltanto un bambino per me, incarna il senso di ingiustizia che ho percepito ovunque e che adesso ha le fattezze di un bambino di otto anni. Mi avvicino a lui e ci sorridiamo. Tiene stretto nella mano un sacchetto che contiene tutto ciò che possiede, ci si aggrappa quasi. Sono stanca, emozionata, ho i nervi allentati e mi viene da piangere. E i bambini cosiddetti «non accompagnati», che ne sarà di loro? Attraverso colloqui e indagini si tenterà di ricostruire la storia familiare così da ipotizzare un ricongiungimento con eventuali parenti, ma prima ancora si cercherà di restituire loro un brandello di serenità, di ristabilire un sentimento di fiducia nei confronti del genere umano da cui si sono sentiti traditi. Mi guardo intorno e osservo con sollievo le instancabili ragazze con le pettorine azzurre che sanno come muoversi e cosa dire e penso, anzi sono certa, che L., dopo aver consumato l’adrenalina di questo viaggio memorabile, si addormenterà tranquillo. 

( E: Questi bambini soli sono messaggi in bottiglia abbandonati alle onde.)

Quinto giorno 
Edoardo: Pare che i bambini eritrei arrivati col volo notturno da Tripoli abbiano saltato tutta la notte sul letto, svegli come grilli. Una delle ragazze evacuata dalle carceri libiche ha avuto una crisi di panico. Temeva di essere rimasta incinta e avere contratto l’Aids in prigione. Gli esami clinici hanno per fortuna escluso queste ipotesi. Ma il malessere sarà comunque difficile da curare. «Non sento più il mio corpo come una cosa mia. È come se mi avessero levato un tumore al cervello. Ecco come mi sento».
(Il primo ministro Paolo Gentiloni ha dichiarato che truppe italiane verranno presto schierate in Niger. Fino a pochi mesi fa non ne parlava quasi nessuno, del Niger, ora tutta l’attenzione è puntata qui, su questo Paese che ieri mattina il governatore di Agadez ha detto occorre trasformare da «un corridoio verso l’inferno della Libia» a «un territorio di accoglienza e integrazione». Serviranno solo soldati per ottenere questo?)
Sesto giorno 
E: Partiamo presto in macchina verso Ovest, la viabile che corre a fianco al Niger e porta alla frontiera con il Mali e il Burkina Faso. La strada è quasi tutta dritta, attraversata a saltelli da file di capre suicide, ciuchini, pecore bicolori e vacche dalla schiena bozzuta. Fatti poco più di cento chilometri, a Tillabery, ci fermiamo nel compound dell’Unhcr per un minimo di security briefing. In effetti il Nord del Mali è nel caos, da anni, e la frontiera col Niger, avverte con un sorriso beffardo il capo della sicurezza locale, è «poreuse», porosa, il solito eufemismo per dire che è virtuale: una linea tracciata col righello sulla mappa dell’Africa da qualche diplomatico europeo, un secolo fa. 
Ci mostra sulla cartina tre zone contrassegnate a pennarello blu, che in parte si sovrappongono e accerchiano Niger e Mali di qua e di là dal confine. «A Ovest stanno i Peulh», un popolo diffuso nel Sahel che durante l’esodo si porta dietro il suo bestiame, o ciò che ne resta dopo le razzie subite (più tardi, nel campo, vedremo le loro donne dal cui velo sbucano sulla fronte spettacolari acconciature cespugliose). Un altro cerchio indica la minacciosa presenza di Moujao, sigla degli scissionisti di Al Qaeda. «E questi chi sono?», chiedo indicando il terzo anello blu, il più grande, che congiunge i precedenti. Con la miracolosa commistione di gravità e ironia che contraddistingue gli uomini d’azione qui in Niger, il mio interlocutore risponde asciutto: «C’est la criminalité …». E cosa sono peggio, scusa, i jihadisti o i banditi? Lui alza le spalle: se nel tuo villaggio piomba all’improvviso un pickup zeppo di uomini armati a sparare e saccheggiare, le sigle perdono significato. 
Fuori dal compound due automezzi armati con Rpg e mitragliatrice pesante ci scorteranno per altri 80 chilometri verso il Mali, ad Ayorou. Qui la zona è senz’altro calda, livello 4 di sicurezza su 5. Negli ultimi mesi sono stati uccisi in imboscate quattordici militari nigerini e quattro americani, mandati ad addestrarli. Ad accoglierci ci sono il prefetto, un Touareg dall’eloquio impeccabile, con la fascia del turbante incollata sul labbro inferiore, e il sindaco di Ayorou, un bellissimo e affabile uomo dagli occhi iniettati di sangue come Michael Jordan. Insieme a loro ci rechiamo a visitare la «station de pompage» che succhia e filtra l’acqua dal Niger e coi suoi grossi depositi serve sia gli abitanti locali sia la comunità di rifugiati maliani. Al fiume, dentro cui affondano le enormi tubature dell’impianto di depurazione, c’è il consueto festoso bordello di vacche al bagno e donne che lavano i panni e bambini che sguazzano. 
Per i maliani sono state costruite quattrocento casette, più altre cinquanta destinate ai locali, che però un’alluvione ha parecchio danneggiato. Entro gennaio partirà un progetto per restaurarle con tetti più resistenti. Costa solo 5.000 franchi, un prezzo simbolico, circa 8 euro, avere l’usufrutto di queste abitazioni per sette anni. È previsto che i campi di rifugiati chiudano entro il 2019 integrando definitivamente i rifugiati nel territorio nigerino. Ci si riuscirà? 
Francesca: Sono circa 11.000 i rifugiati maliani che si trovano a Tabareybarey, in quello che per semplicità definiamo «campo», ma la cui corretta denominazione è Zar (Zona di accoglienza rifugiati). È un territorio molto più ampio e aperto di un campo convenzionale, in modo che le famiglie abbiano modo e spazio per tenere presso di sé il bestiame, pecore e asini, portato dal Mali. Il protection officer locale si chiama Gambo. Un uomo calmo, gioviale, ironico, sapiente. A Niamey ci hanno detto che ogni settimana spedisce ai colleghi un messaggio augurale, una perla di saggezza. Gli chiedo se la dà anche a noi visitatori, solo per oggi, una perla tutta speciale. E lui inizia a rimuginare. Poi parte e noi dietro a lui. Gambo: fisico possente e spirito gentile. Lo seguiamo nei vari capannoni dislocati in un’area molto vasta. Cominciamo con l’ufficio registrazioni, un grande capannone gremito di persone che attendono di essere identificate e schedate attraverso il sistema biometrico che alle impronte digitali aggiunge la registrazione dell’iride. Sedute ordinatamente su panche di legno intere famiglie attendono il loro turno. Gambo ci mostra il risultato finale della procedura: una scheda dettagliata con i dati anagrafici completi della famiglia. Fa impressione notare che la casella relativa all’istruzione è quasi sempre riempita dalla sigla NE, No Education. Proseguiamo il giro stringendo mani, incrociando sguardi, i bambini ci corrono dietro e noi passiamo in rassegna le varie sezioni, il presidio medico, quello per i colloqui. Una mappa commovente posta al centro del campo ha assegnato a ogni settore il nome della città o della zona del Mali da cui provengono i rifugiati. Sotto un capanno all’aperto una delegazione di rifugiati ci attende per un colloquio. 
Il primo a parlare si chiama Mahama Kaboulaba, detiene il triste record di esser stato il primo maliano ad arrivare in Niger, insieme alla famiglia, nel 2012. Dice che il campo qualche volta è stato visitato dai banditi che arrivano dal Mali: «La frontiera è molto vicina, troppo vicina…». Al gruppo si uniscono alcune donne, hanno voglia di partecipare all’incontro, sono anche spiritose. Chiedo a una di loro come sta, come si trova qui in Niger. «Non si possono fare paragoni con ciò che accade dall’altra parte» risponde, e sembra davvero che «l’altra parte» sia al di là di una staccionata, in questa terra dai confini così labili. Uomini e donne sono concordi sulla medesima aspirazione e cioè quella di liberarsi dal costante stato di dipendenza. «Vogliamo fare qualcosa, siamo pronti per riprendere le attività di cui eravamo capaci: cucito, pesca, lavori artigianali, coiffure...». Ora che il pericolo immediato è stato scongiurato, vogliono tornare a vivere.
E: Mentre stiamo per ripartire chiedo a Gambo, salutandoci: «… e insomma, la famosa perla di saggezza che ci avevi promesso?». Lui ci ha pensato su. «Connaissez-vous Victor Hugo?». Ma certo. «E la poesia Fonction du poète, la conoscete?». No, mi dispiace, mai sentita. Allora Gambo si schiarisce la voce e attacca a recitarla, a memoria. «Dieu le veut, dans les temps contraires,/ Chacun travaille et chacun sert...». Nel tempo avverso, tutti lavorano e tutti servono… 
Grazie a queste sei ore e passa di jeep, oggi credo di aver capito, insieme alla guerra alla fame e alle malattie (che esistono da sempre), quale sia il grande nemico dell’umanità, o piuttosto del mondo intero. Un nemico che esiste da pochi decenni ma cresce in modo esponenziale: LA PLASTICA. Non abbiamo visto un solo albero in Niger, anche se a molte miglia dalla minima presenza umana, i cui rami non fossero decorati da sacchetti neri trascinati dal vento. E i campi paiono essere coltivati a bottiglie e bottigliette. 
Settimo giorno F : Una ragazza eritrea di 29 anni rende la sua testimonianza in un inglese brutalmente semplice. «L’attraversamento del Sahara e stato the bad of the bad, il peggio del peggio: niente acqua, niente da mangiare, il sole così pesante, e poi ci picchiavano. Ci abbiamo messo un mese. Ma la cosa più dura è stata la Libia. Ci hanno rinchiusi finché non abbiamo pagato, io gli ho dato 3.600 dollari. Così ho finito i soldi, e siamo partiti verso il mare, ma prima di arrivarci siamo stati presi dall’Isis, che ci ha tenuto prigionieri per due settimane. Mi hanno violentato, in due, non so chi fossero, avevano le facce coperte, vedevo solo i loro occhi ( s’interrompe, china la testa, piange). Ci hanno lasciato in mano a un altro gruppo. Eravamo circa in 160. Siamo arrivati a Misurata, e dopo solo un giorno ci ha arrestato la polizia. Nelle prime 24 ore ci hanno dato solo un po’ d’acqua e una galletta. Un giorno è venuto a visitarci uno dell’ Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr ) e ci ha chiesto come stavamo, male, male, gli abbiamo detto, ma volete tornare in Eritrea? No mai, neanche morti… Dopo 16 giorni di prigione qualcuno ha pagato la polizia e ci ha portati a Sabrata. Di notte. Siamo rimasti a lungo senza bere ne mangiare. Una volta a Sabrata, l’uomo che ci aveva prelevato a Misurata ci ha minacciato “Io ho pagato per voi e ora voi mi pagate se volete che vi liberi” Quanto? “5.500 dollari”. Ma non avevo più un soldo. La mia famiglia è povera e ai miei, i 3.600 dollari, glieli aveva dati la chiesa. Ma lui insisteva. La cosa è andata avanti così: pasta in scatola per quattro mesi, e da bere acqua salata, e poi ogni possibile malattia, tosse, malaria, senza essere mai curati, nessun dottore per noi. Sei eri malato, morivi, ma io ho pregato Dio che facesse il mio bene e grazie a lui sono ancora viva ( s’interrompe di nuovo, commossa ). Quindi ci hanno spostati in autobus in un altro posto e hanno di nuovo chiesto i soldi. Ci hanno messi in una casa e da lì i ragazzi sono riusciti a scappare e siamo rimasti solo noi donne. Un altro posto ancora, Ben Walid, poi Zawiya. Poi lui ha scelto trentadue donne, voi venite con me, le altre non so che fine abbiano fatto. Quindi ci ha ammassato in un altro posto ancora, dove c’erano già centocinquanta neri, poco o niente cibo, solo acqua, e i bagni otturati, ma dopo due giorni sono riuscita a scappare dalla finestra del bagno, insieme ad altre. Nel cuore della notte, abbiamo raggiunto la moschea e abbiamo chiesto all’imam di chiamare la polizia. Ci hanno portato in prigione, è li siamo state bene, ci hanno dato sapone, shampoo, dentifricio, vestiti puliti; 25 giorni in una prigione, poi in un’altra prigione, a Tripoli, dove mi hanno visitato dei dottori, mi hanno fatto il test di gravidanza, per fortuna negativo, poi l’Unhcr ci ha registrato, e alla fine ci hanno portato qui, in Niger. È stata opera di Dio. E ora sono felice. Felice (piange) Ero felice di lasciare la Libia, e di non vederla mai più, non andarci più nemmeno in vacanza! (sorride ironicamente). All’aeroporto abbiamo aspettato l’aeroplano. Non ero mai salita su un aereo. Non ci credevo. Ero felice, troppo felice. Come posso spiegarlo?» 
E se una donna non paga? «La violentano. Fanno questo: le donne le violentano, gli uomini li picchiano e li uccidono. Se c’è una coppia, marito e moglie, lei la stuprano, lui lo picchiano o lo uccidono». Prosegue turbata: «Voi di dove siete?» Italiani. «Ah, italiani… in mare, quanto vi ho cercato, quanto ho cercato l’Italia!». Lei è infatti una di quelle bloccate e riportate indietro dalla guardia costiera libica.
Ha i desideri, molto semplici, quasi ingenui, di una ragazza qualsiasi, una ragazza con una vita normale. «Che cosa vorrei adesso? Sinceramente? Ecco, vorrei uscire già stasera, vorrei andare a ballare…».
Ultimo giorno F : Sono tante le domande che vorrei fare alle ragazze arrivate due giorni fa, ma so che non hanno voglia di parlare o forse semplicemente di ricordare, come biasimarle? Non chiederò allora «cosa ti è successo in carcere?», ma virerò sul più generico «cosa succede alle donne rimaste lì?», senza forzarle. Mi tocco la fronte, è molto calda e mi sento debolissima. Arriviamo nel bel mezzo di una riunione. Sono sedute in cerchio sotto un gazebo, una stretta all’altra. Spesso si tengono per mano. Le sento fare più volte la stessa richiesta che pare essere la più urgente: un referente per i loro problemi di salute, un medico a cui rivolgersi. Si aggiunge al gruppo una ragazza giovanissima, avrà sì e no sedici anni, tiene in braccio una bimbetta di due mesi, si era allontanata per scaldare il biberon. Mi viene un brivido a pensare come sia stata concepita quella creatura eppure mi basta vederle insieme, madre e figlia, per capire quanto l’amore sia capace di miracoli. La stringe a sé con una tale naturalezza, non sembra esserci in lei altro pensiero oltre il doversi prendere cura della figlia, ed è evidente quanto quella bambina sia l’ancora a cui si aggrappa. Sembra essere la gioia di tutte quella neonata, se la passano l’un l’altra sbaciucchiandola, e sorridono con lei abbandonando per un momento i loro sguardi tristi e sospettosi. 
Si parla di cibo, dicono tutte di amare la carne ma per favore, chiede una, non dateci il pollo con le zampe, al nostro Paese non si mangia così. La riunione è finita, ora se voglio posso parlare con loro. Mi avvicino, mi gira la testa, comincio a sentirmi davvero male. Ma non oso dire nulla. Mi ascoltano con gentilezza e senza diffidenza. «È importante che la gente sappia, lo è per voi e per le ragazze che sono rimaste in Libia». Faccio la domanda che mi ero preparata. La risposta è secca, senza appello: «Quello che succede alle donne in carcere è brutto e non esiste un giorno migliore dell’altro». La ragazza seduta accanto a me mi guarda e dice che il sentimento che non l’ha mai abbandonata è stata la paura. «Anche nei sogni avevo paura». È così bella anche lei ed è così potente quel carico di bellezza che mi sento scagliato addosso. Chiedo loro di dare un nome al rapporto che le lega, rispondono in coro: «Sorellanza!». 
Mi alzo per salutarle e spontaneamente si avvicinano per abbracciarmi, faccio fatica a non sciogliermi in lacrime. Sono bollente di febbre, mi consigliano di andare subito all’ospedale per fare il test della malaria che qui si ottiene in un paio d’ore. Ci vado, risulta negativo, ma io sto sempre peggio e la febbre sale e il nostro aereo parte fra poche ore. Mi imbarco dopo mezzanotte per quello che sarà uno dei voli più spaventosi della mia vita, ma mentre mi avvolgo come in un bozzolo nelle coperta per tentare di placare i brividi, noto alle mie spalle Thenat, una delle ragazze che avevamo incontrato il primo giorno nella «Case de passage». Stento a riconoscerla, il suo sguardo è così diverso ora e sono certa che non è la febbre a farmi notare la scintilla di felicità che brilla nei suoi occhi. 
E: A bordo dell’aereo per Parigi, prima di crollare nel sonno indotto dal Tavor, tiro la morale della favola di questa missione in Niger: i Paesi poveri sembrano disposti ad accogliere altri poveri più di quanto lo siano i Paesi ricchi.