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 2017  dicembre 31 Domenica calendario

Pugno duro in Iran. Sangue sulle proteste contro il carovita

La «protesta perfetta», perfetta per Donald Trump. Le manifestazioni in corso in Iran contro il carovita sono state un assist imperdibile per il presidente americano pronto a mettere a segno la stoccata di fine anno su uno degli argomenti di politica internazionale a lui più cari, ovvero «fermare Teheran» forte anche della convinzione che «l’oppressione non può durare in eterno». E così Trump coglie l’attimo per scatenare su Twitter l’offensiva contro quello che, a suo dire, è lo sponsor del terrorismo per eccellenza, lo Stato canaglia che minaccia la pace in Medio Oriente. È piena notte in America quando il presidente fa partire il suo cinguettio, proprio mentre in Iran studenti e lavoratori si radunano per il terzo giorno di manifestazioni. «I cittadini iraniani sono stufi della corruzione del regime e dello sperpero della ricchezza della nazione per finanziare il terrorismo all’estero», scrive l’inquilino della Casa Bianca. «Il governo iraniano dovrebbe rispettare i diritti del suo popolo, incluso quello di espressione. – prosegue utilizzando l’hashtag #IranProtests – Il mondo sta guardando». A guardare è soprattutto l’amministrazione Trump pronta a cavalcare l’onda di protesta per rilanciare la crociata contro la Repubblica islamica partendo dallo smantellamento dell’accordo sul programma nucleare del 2015. E quale miglior occasione se non quella di legittimare la campagna condannando un’ondata repressiva nei confronti della protesta in corso nel Paese, come accadde nel 2009 con l’Onda verde messa a tacere dall’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad. L’afflato di Washington questa volta è corale, visto che le medesime parole twittate dal presidente sono ribadite poco dopo da Sarah Sanders, la portavoce della Casa Bianca. E a farsi sentire è anche Heather Nauert, la collega del dipartimento di Stato che condanna con fermezza gli arresti compiuti ai danni dei manifestanti. «La leadership iraniana ha trasformato una nazione ricca e con un grande patrimonio storico e culturale in uno Stato canaglia impoverito e che esporta violenza, sangue e caos», dichiara il Dipartimento di Stato. «Come ha detto il presidente Trump – prosegue la diplomazia Usa – le prime vittime che da troppo tempo soffrono per colpa della leadership iraniana sono gli iraniani stessi». La replica di Teheran è affidata al portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Ghasemi: «Il popolo iraniano non dà credito alle dichiarazioni ingannevoli e opportunistiche del signor Trump o dei suoi funzionari». Opportunistiche forse, ma senza dubbio funzionali all’agenda di politica estera del 45° presidente Usa che ha tra i suoi punti salienti – ma incompiuti – una dura stangata nei confronti della Repubblica islamica. A partire dalle ambizioni nucleari dell’ayatollah Khamenei che, secondo il presidente, non sono state accantonate con il «Joint Comprehensive Plan of Action», l’accordo siglato, tra gli altri dal suo predecessore Barack Obama, nell’ambito dell’intesa raggiunta all’Onu. Per il «commander-in-chief» quell’accordo è il peggiore possibile ed è stato «violato sistematicamente nello spirito» dal Paese guidato da Hassan Rohani. I tentativi di smantellarlo non sono però andati a buon fine sino ad ora ma, secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Trump è pronto a inaugurare, già da metà gennaio, una nuova offensiva per abbatterlo. Trump se la dovrà comunque vedere con gli alleati europei secondo cui l’accordo, sebbene perfezionabile, è il migliore possibile al momento. Oltre al fatto che la puntuale solidarietà alle rivendicazioni del popolo iraniano da parte dell’amministrazione Usa – avvertono i critici – non trova eguali nelle reiterate proteste interne ad Arabia Saudita e Bahrein, o ai massacri dei civili yemeniti perpetrati della coalizione militare guidata da Riad. Ma è proprio questo il punto, l’intesa tra Trump (forte dell’appoggio dei falchi conservatori), Israele e Arabia Saudita, nell’ambito del nuovo ordine regionale inaugurato dallo stesso presidente Usa – con il riconoscimento di Gerusalemme capitale e la delega a Riad di «nuovo broker» del processo di pace in Medio Oriente – vede in Teheran – principale vincitore della guerra contro lo Stato islamico – il rivale da indebolire. Ad ogni costo.