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 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Nel quartier generale di Spike Lee a Brooklyn

La strada di Spike. Così la chiamano gli abitanti di Fort Greene. Il vialetto alberato su South Elliot Place, a un passo dal ponte di Brooklyn, si impenna appena verso destra. Sotto un F* ck ’ Em pitturato di rosa e un coreano che offre arance in uno dei suoi deli aperti 24 ore al giorno, spunta un’ex caserma in mattoncini con una bandiera a fungo e un marchio: 40 Acres and a Mule Filmworks. Spike Lee, il regista orgoglio degli afroamericani, ha piantato lì la sua società di produzione indipendente. Ci passava da ragazzo con il padre, il musicista Bill Lee: «Io gli parlavo della passione per il cinema, lui mi raccontava com’era suonare il basso per Harry Belafonte e Bob Dylan». 40 acri di terra e un mulo è la promessa (tradita) che il governo americano fece agli schiavi liberati dopo la guerra civile. Dal mitico esordio con Lola Darling, 1986, il cantore del cinema black ha fatto suo l’insegnamento di uno dei maestri alla New York University: «Mai smettere di farsi ispirare dal cinema, mi diceva my man Martin Scorsese».
La production company del regista di Fa’ la cosa giusta eMalcolm X «non è aperta al pubblico», precisa lo staff, ma d’estate raccoglie concerti e raduni, come la giornata in memoria di Prince. «Non è un museo. È l’ufficio di Spike Lee», il filmmaker che ha dovuto combattere contro il razzismo prima di diventare “il sacerdote pop della cultura afroamericana” e di passare alle controversie e dire che «Hollywood è in mano agli ebrei». L’ingresso di 40 Acres and a Mule è pura memorabilia: un collage con tutti i poster degli Spike Lee Joints (per “joint” si intende un film scritto, diretto e prodotto da Spike), il cocomero di gommapiuma che ammicca a quello nel manifesto del film del 2000 Bamboozled e la riproduzione di boccali di malto e bottiglie a forma di bomba con le ali (era la pubblicità-parodia di Da Bomb, contenuta appunto in Bamboozled), oltre a libri di esponenti come Mandela, C. L. R.
James e Marcus Garvey accatastati a terra e il cartone della pizza di Famous Pizzeria tratto da Fa’ la cosa giusta e incorniciato al muro «come un’opera d’arte, non una reliquia» dice Lee. Al piano di sopra: ciondoli, medaglie e giacche ipercolorate della confraternita Gamma Phi Gamma in Aule turbolente,un inno ai black college accompagnato dalla bandiera del Congresso Nazionale Africano firmata Nelson e Winnie Mandela; un dietro-le-quinte diMalcolm X (1992) con le polaroid dello stendardo a stelle e strisce che brucia e le immagini del linciaggio di Rodney King (venticinque anni dopo Spike dirigerà un documentario di un’ora sui riot di Los Angeles per Netflix). E un’opera di Shepard Fairey, lo street artist che ha creato Hope con il volto stilizzato di Barack Obama, con la dedica: “Spike, grazie dell’ispirazione”.
Segue autografo dello stesso Obama. Non a caso, al primo appuntamento, l’ex presidente degli Stati Uniti ha portato Michelle al cinema a vedere Fa’ la cosa giusta. Lo studio di Spike Lee è infarcito di street style con le magliette di Jackie Robinson e Pee Wee Reese dei Brooklyn Dodgers: «Non guardo tv, vedo solo lo sport e vado pazzo per il baseball» sorride il padrone di casa. Quando lo incontriamo, le risposte sull’importanza di restare indipendenti sono precise: «Tecnologia e piattaforme di video on-demand cambiano il modo di fare cinema e di pensarlo» dice. «Ho girato Lola Darling nell’estate dell’85 in dodici giorni e in super 16mm, con un budget di 175mila dollari. Per Netflix l’ho trasformato in She’s gotta have it, serie da 10 episodi: mi sono reso conto che le sfide, per una società di produzione indie come la mia, raddoppiano.
Dalla parte dello spettatore abbuffarsi di serie televisive suona facile, ma come autore vale lo stesso principio? Ho preparato un episodio pilota, Mayor of New York, che poi non è stato preso da Hbo. Un altro, Brick, anche quello scartato…». Intanto l’icona femminista Nola nel remake di She’s gotta have itha riscosso enorme successo negli Usa, avvicinando parecchi giovani al cinema di Spike Lee (60 anni).
Tra le carte nel suo quartier generale, appare anche un’immagine di Frank Sinatra: «In una scena di Fa’ la cosa giusta la foto di Sinatra finisce in fiamme nel locale di Sal. Quando ho girato Jungle Fever negli anni Novanta avevo in mente di usare ben tre canzoni di Frank Sinatra per il film. Ma Sinatra, ancora offeso, non ha voluto parlarmi. È stata la figlia a cedere i diritti. Lo dico sempre a Scorsese: afroamericani e italoamericani sono uniti dall’arte».