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 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Vertigini intellettuali e dolori umani: nelle lettere tutti i «Demoni» di Dostoevskij

Il 22 dicembre del 1849, Fëdor Dostoevskij, che allora aveva già pubblicato libri per i quali era stato salutato come il nuovo Gogol’ Povera gente, Il sosia e Le notti bianche, scrive a suo fratello Michail una delle sue lettere più commoventi: «Ci hanno portati sulla Piazza Semënov. Lì ci hanno letto la condanna a morte, ci hanno fatto baciare la croce, hanno rotto le spade al disopra delle nostre teste (...) Poi hanno messo i primi tre al palo per l’esecuzione. Ci hanno chiamati a tre a tre, così che io ero nel secondo gruppo e non mi restava da vivere un solo minuto. Finalmente è suonato l’allarme, (...) ci hanno letto che Sua Maestà Imperiale ci aveva fatto grazia della vita (...) Adesso, cambiando vita rinasco in nuova forma».
La condanna a morte (commutata in lavori forzati) e i quattro anni di reclusione in un campo siberiano (l’accusa era quella di far parte di una società segreta che tramava un attentato a Nicola I), sono state le esperienze più determinanti nella vita del futuro autore delle Memorie dal sottosuolo. La ristampa oggi per Aragno dei due volumi del suo epistolario, I demoni quotidiani (pagg. 930, euro 60), che comprendono lettere dal 1837 al 1880, riproposte nella stessa cura di Ettore Lo Gatto del 1950, ci restituisco la vicenda di un uomo, prima che di uno scrittore, lacerato dentro, assediato dai debiti e dal vizio del gioco, e che senza ritegno si confessa e umilia di fronte al fratello, agli amici, alle mogli.
Quando André Gide lesse l’epistolario dell’autore a cui più tardi dedicherà una memorabile monografia, ne rimase deluso: «Ci si aspetta di trovare un dio: ci tocca un uomo malato, povero, sempre in pena». L’aspettativa di trovare svelata tutta la filosofia e le vertigini spirituali che ogni personaggio di Dostoevskij interpreta e incarna, di scoprire insomma quegli interrogativi che complicano e rivelano la vita e che sono pure il marchio di fabbrica del più grande romanziere di ogni tempo, viene inesorabilmente delusa. Ma sarebbe una negligenza interpretativa sottovalutare queste confessioni che il russo non immaginava che qualcuno, fuori dai destinatari, avrebbe letto. Le lettere sono invece uno strumento fondamentale per comprendere la natura di quelle vertigini che attraversano tutta la sua opera. E il segreto è proprio in quell’umiliarsi dell’uomo, in quell’inginocchiarsi di fronte al mondo mettendosi a nudo senza pudore. È nei momenti in cui depone ogni strumento intellettuale che a Dostoevskij emergono gli interrogativi più radicali. Se non avesse vissuto la miseria economica e il vizio del gioco come avrebbe potuto scrivere Il giocatore e Delitto e castigo? Senza i suoi attacchi epilettici, che chiamava delle vere e proprie estasi, come avrebbe potuto dare vita a Ivan, il più tormentato dei Fratelli Karamazov, colui che con gravità afferma che se Dio non c’è allora tutto è permesso? E senza il suo impeto autodistruttivo come sarebbe potuto nascere lo Stravroghin dei Demoni; e, di contro, senza il suo innato desiderio di fissare nella carne il bene, come avrebbe potuto scrivere il suo libro più cristologico, L’idiota?
È nelle lettere che Dostoevskij, pur dicendoci nulla sui suoi capolavori, ci rivela l’urgenza vitale che li ha generati.