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 2017  dicembre 29 Venerdì calendario

Se questo è un genio: i segreti di Primo Levi

Quando nell’inverno del 1944 Primo Levi giunse nella stazione di Carpi per essere caricato su un carro bestiame, ebbe modo di sfogare la sua rabbia nei confronti di un poliziotto italiano al servizio dei nazisti. «Si ricordi di quello che ha visto», gli disse. «E ricordi che lei ne è complice e ne pagherà le conseguenze». Il poliziotto, per farsi perdonare, portò al prigioniero dell’acqua da bere. «Ma che posso fare?» si giustificò. Levi rispose: «Vada a rubare, è molto più onesto». Questo tristissimo colloquio è riportato nella monumentale biografia di Primo Levi, costruita in anni di accanita ricerca dal reporter e critico letterario inglese Ian Thomson (Primo Levi – Una vita, pagine 790, euro 35, UTET, traduzione di Eleonora Gallitelli).
Letto questo brano del libro di Thomson, mi è venuto automatico trascrivere una riflessione che Levi inserì quasi a chiusura del suo capolavoro Se questo è un uomo: «Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce». Ora, chi arriva ad annotare un pensiero del genere ha davvero intravisto l’abisso del male assoluto, quello in cui, in certi momenti della storia, gli esseri umani vengono gettati. Thomson ha ricostruito, passo dopo passo, la vicenda esistenziale di Primo Levi, una vita che, alla luce di ciò che abbiamo appena trascritto, possiamo definire esemplare.
L’INCONTRO
Nove mesi prima che Levi morisse suicida, Thomson l’intervistò. E così apprendiamo: «Si presentò all’incontro in maniche di camicia, con il tatuaggio “174517” ben visibile sull’avambraccio sinistro. (“Tipico talento tedesco per la classificazione”, osservò caustico). Era un pomeriggio di luglio del 1986. Levi allora aveva quasi sessantotto anni, ma conservava una certa vivacità… Per tutta la nostra conversazione rimase seduto su una poltrona di chintz logora, concedendosi una sigaretta al mentolo Alaska. Aveva la barba ben spuntata e occhiali con la montatura di metallo. Nello studio c’erano pochi mobili, una lampada a pantografo, un elaboratore di testi e il necessario per scrivere. Alle pareti schiere di libri, alcuni in inglese. Incorniciati, c’erano attestati della sua precedente professione di chimico e, appesi sopra una libreria a vetri, un gufo, un pinguino e una farfalla gigante modellati da Levi con un filo di rame industriale. Per trent’anni era stato direttore generale di una fabbrica di vernici fuori Torino. L’unico altro ornamento che mi riuscì di vedere nella stanza era uno schizzo di un recinto semidistrutto di filo spinato: Auschwitz».
Ho riportato questo lungo brano di quell’intervista, perché in esso è riassunta la vita dell’uomo di scienze, dello scrittore e dell’essere umano agli occhi degli aguzzini nazisti segnato da una colpa irreparabile: quella di essere un ebreo. Fu questa “colpa” a spingerlo al suicidio la mattina dell’11 aprile 1987? Thomson, come gli altri biografi, prudentemente non si pronuncia. E questo perché sa bene, da indagatore di vite umane per mestiere, che ogni uomo e ogni donna, al di là dei dati riscontrabili riguardanti la propria esistenza, nasconde in sé l’ignoto. Per Primo Levi non può essere diversamente. Affetto da una forma cronica di depressione, accentuò questo suo «freddo torpore interiore» (l’espressione è sua) dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo, in un primo tempo accolto senza il consenso sperato. Un buon libro di un onesto testimone, fu giudicato quel capolavoro, mentre lui, al contrario, aveva fatto di tutto per evitare cedimenti al dolore e alla sacrosanta indignazione. «L’intento di Levi – scrive Thomson – era ergere il lettore a unico giudice e giurato dei crimini da lui descritti». Eppure, come annota il biografo, «quel trattato morale sull’essere umano che s’inseriva appieno nella tradizione manzoniana», non superò le 1500 copie. E qui va ricordato che a pubblicare nel 1947 Se questo è un uomo fu la casa editrice De Silva di Franco Antonicelli, intellettuale antifascista, i cui tanti meriti si disperdono nella sua multiforme attività culturale. Il successo arrivò con la pubblicazione presso Einaudi, nel 1958 («molti recensori rimarcarono che i dieci anni di disinteresse verso quel libro erano stati una ‘grave ingiustizia’ e si meravigliarono per la sua capacità di raccontare con parole tanto precise un’atrocità senza pari»).
I CAPOLAVORI
Mi sono soffermato su Se questo è un uomo, ma andrebbero ricordati gli altri libri di Levi, tutti degni di un posto d’onore in una biblioteca, e comprovanti le sue non comuni doti di scrittore: La tregua (1963), Il sistema periodico (1975), La chiave a stella (1978), Se non ora quando? (1982), I sommersi e i salvati (1986). Ma se Primo Levi è scomparso, i suoi libri sono ovunque, e questa magnifica biografia spinge certamente a cercarli.