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 2017  dicembre 28 Giovedì calendario

Intervista a Veronica Diquattro: La rivoluzione delle hit parade è contro il nuovo che avanza

Nella prima settimana del 2018 per le classiche musicali del nostro Paese tutto cambia: non varranno più gli ascolti in streaming gratuito ma solo quelli dei clienti premium e cioè di chi paga un abbonamento. Per Veronica Diquattro, la giovane manager di Spotify, i conti non tornano.
La incontriamo a pranzo, e il viso dolce e i modi gentili lasciano trasparire il dispiacere per un’importante, quanto rivoluzionaria decisione dell’industria discografica italiana. Poche settimane fa il CeO della FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) Enzo Mazza ha comunicato gli ultimi dati sullo sviluppo dell’innovazione nel sistema musicale italiano con riferimento al mondo delle classifiche, certificazioni Top of the Music, e per Spotify non sono state buone notizie.

«È una scelta sbagliata – dice subito la Diquattro -, non fotografa l’andamento reale del consumo musicale italiano, non rappresenta le abitudini del mercato ed è destinata a cancellare dalle classifiche tutta una serie di artisti che si sono fatti conoscere solo grazie allo stream gratuito».
A chi si riferisce?
«Le faccio subito un nome: Coez. La sua canzone La musica non c’è è tutt’ora una hit, un numero importante di fan riempie i palazzetti e la stampa lo riconosce come artista di primo livello. Ricordo perfettamente quando nessuna tra le grandi radio, ma nemmeno delle piccole, suonava un suo pezzo. A parte Coez lo scenario che si prefigura è quello di classifiche basate sul mainstream totalmente miopi e soprattutto irrilevanti. Che è ancora peggio».
Lei sottolinea il problema facendo leva sui ragazzini che non spendono un euro per comprare musica e saltano su e giù dalle playlist sopportando gli spot pubblicitari che fate ascoltare ai clienti «non premium».
«E quei ragazzi, come si sa, oggi ascoltano solo rap e trap che nelle nostre playlist ospitiamo e promuoviamo. Gué Pequeno, Ghali, Sfera e Basta, lo stesso Coez o altri ancora sono diventati delle star grazie allo streaming».
Ormai però la decisione è presa e fra pochi giorni sarà così anche se immaginiamo che lei abbia delle proposte per una revisione a breve termine.
«Assolutamente, una su tutte è quella di trovare il peso giusto, così come accade in molti Paesi all’estero, fra ascolti (stream) free e pay. Se si calcola la percentuale giusta nessuno sarebbe penalizzato e anche le centinaia di artisti che si affacciano alla ribalta dello streaming potrebbero avere una chance».
Ricordiamo che 130 stream di un brano valgono un download e quindi l’acquisto di un solo singolo, ma come funziona negli altri Paesi?
«In Europa l’Italia sarà l’unica ad operare così come hanno deciso i discografici perché Germania, Austria e Svizzera considerano anche loro solo la parte a pagamento ma le classifiche sono considerate a valore e non a unità. Mi spiego: lì un artista va in classifica a seconda di quanti soldi ha incassato dalla vendita di un determinato disco e non da quante volte viene scaricato o ascoltato in stream».
Secondo gli ultimi dati Spotify ha 140 milioni di utenti attivi di cui 60 milioni sono Premium. Solo nelle scorso anno avete aggiunto 20 milioni di utenti al vostro servizio e a fronte di questi numeri le case discografiche italiane hanno optato per la scelta “no free”. Il famigerato «value gap», la percentuale in denaro che voi streamers (oltre a Spotify ricordiamo anche YouTube, Apple Music o Deezer) pagate, in diritti, agli artisti è troppo bassa.
«Su questo stiamo ragionando, ma finora sono accordi siglati commercialmente proprio con i discografici. Sappiamo che lo scoglio dei diritti è importante e giustamente sta a cuore di tutti. Anche noi, che non siamo i discografici degli artisti, spesso li promuoviamo con billboard, affissioni, campagne pubblicitarie e altro. Cos’è questo se non un modo per aiutare la discografia ad andare sempre meglio. Noi siamo per la musica ma le prossime classifiche vanno in un’altra direzione».