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 2017  dicembre 29 Venerdì calendario

La guerra tra Isis e Taliban in Afghanistan si combatte a colpi di maxi attentati

Non c’era quasi bisogno di rivendicazione per l’attacco di ieri al centro culturale sciita Tebyan nel quartiere hazara di Dasht- e- Barchi, a Kabul, dove 41 persone sono morte e una novantina rimaste ferite. L’agenzia Amaq, che fa riferimento al sedicente Califfato, lo ha attribuito ai militanti afgani, quelli che si raccolgono sotto l’etichetta di Stato sslamico del Khorasan. Almeno un terrorista suicida è riuscito a penetrare nel centro e farsi saltare in aria, mentre altre bombe venivano fatte esplodere all’esterno. In realtà per capire chi fossero i responsabili, bastava guardare alle vittime. Non più funzionari di Stato, truppe governative o soldati occidentali. La scelta di colpire i civili di credo sciita è il marchio di Daesh sin dai primi giorni di attività, quando agiva in Iraq agli ordini di Abu Musab al Zarqawi e sotto l’egida di Al Qaeda. Questo accanimento ha causato il distacco dalla linea qaedista ortodossa, e oggi può essere considerata la cifra del gruppo. In più, secondo alcune fonti, l’assalto al centro culturale filo- iraniano è anche una rappresaglia contro gli hazara: molti rappresentanti di questa etnia, ha raccontato il vicepremier Mohammad Mohaqiq, anch’egli hazara, si sono arruolati in Iran per partecipare alla guerra contro l’Isis in Siria. Al di là dell’odio settario, in Afghanistan gli attentati brutali hanno due scopi: il primo – di misura strategica – è polarizzare le divisioni religiose, con l’idea di provocare la repressione e costringere anche i sunniti “moderati” a fare scelte radicali. Il secondo intento è assieme strategico e tattico. Attacchi così aperti e sanguinari, nel pieno della capitale, sono destinati a lanciare un segnale di vitalità, prezioso nel duello fra Isis e Taliban per l’egemonia della jihad. Gli “studenti coranici”, quanto meno gli afgani che fanno riferimento all’eredità ideale del mullah Omar, sono restii a colpire nel mucchio, provocando vittime civili musulmane. Ben diverso è l’atteggiamento dei radicali che hanno giurato fedeltà al gruppo di Abubakr al Baghdadi e alla sua “sezione” afgana. L’“amministrazione della ferocia” teorizzata da Abu Bakr Naji è un dogma fondativo dell’Isis in tutto il mondo: gli attacchi contro gli sciiti, che prima del 2016 erano molto rari in Afghanistan, sono diventati un segno inconfondibile. E di visibilità in Afghanistan l’organizzazione ha bisogno. La diffusione dell’Isis nel paese è recente: gli studiosi segnalano i primi giuramenti di fedeltà ad al Baghdadi da parte di ex comandanti Taliban convertiti al credo salafita attorno al 2014. Il via libera da Raqqa, con la nascita della sedicente Provincia di Khorasan dello Stato islamico, arrivò soltanto per un gruppo di jihadisti radicati nella zona di Nangarhar, vicina alle zone tribali del Pakistan e di difficilissimo controllo politico (per Islamabad) e militare (anche per le forze occidentali). E sia le difficoltà del territorio che l’aiuto dei Taliban pachistani (privi degli scrupoli che caratterizzavano i colleghi d’oltre confine) hanno permesso a questo gruppo di resistere sia agli attacchi dei Taliban afgani sia ai bombardamenti americani. In questa zona nell’aprile scorso il Pentagono ha sganciato la celebrata “Madre di tutte le bombe”, ma apparentemente i risultati sono stati molto modesti. E la mancanza di scrupoli lascia agli uomini dell’Isis ampio margine per aumentare la sua presenza nel nord, con attacchi nelle città e manovre che i Taliban non prendevano in considerazione, come il sequestro degli imam dai villaggi rurali, per imporre ai religiosi la predicazione del verbo salafita.