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 2017  dicembre 29 Venerdì calendario

Caos contratti, in Italia 868 accordi di lavoro

ROMA Prendete la crisi economica, aggiungeteci l’assenza di regole certe sulla rappresentanza dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali e l’incapacità delle stesse parti sociali di riformare la contrattazione e avrete l’attuale situazione di non governo delle relazioni industriali in Italia. Non si sa chi rappresenta chi, non c’è un modello contrattuale riconosciuto universalmente, ogni settore si regola come meglio crede. Un’anarchia che non necessariamente è tutta negativa, visto che i contratti di lavoro bene o male continuano a rinnovarsi e non mancano innovazioni e adattamenti creativi alla nuova situazione, specialmente sul territorio e in azienda, come il welfare integrativo. Ma uno dei frutti del non governo del sistema è certamente la proliferazione dei contratti che mette in discussione la tenuta dei minimi di retribuzione dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori. Lo spiega uno studio diffuso ieri dalla Banca d’Italia nella collana Questioni di economia e finanza che dà voce agli autori delle ricerche (in questo caso Francesco D’Amuri e Raffaella Nizzi) senza impegnare la responsabilità di Bankitalia.
Il rischio del dumping contrattuale, che danneggia sia le aziende sia i lavoratori, deriva, si spiega nel paper, dal vertiginoso aumento dei contratti nazionali di lavoro, come documentato dal Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Erano 398 nel 2008, sono saliti a 868 nel 2017. La frammentazione contrattuale ha raggiunto «dimensioni particolarmente rilevanti nel settore del commercio» dove nel 2015 ha riguardato il 9,2% delle unità di lavoro a tempo pieno e dove sono stati stipulati contratti da organizzazioni «minori» e «poco rappresentative», che prevedono «trattamenti retributivi inferiori, maggiore flessibilità di orario e nessun aumento retributivo nel periodo di vigenza». Cgil, Cisl e Uil parlano apertamente di contratti “pirata”. Questi accordi, dicono i ricercatori, comportano «retribuzioni medie inferiori dell’8% rispetto a quelle dei lavoratori coperti da contratti “tradizionali”». Il dumping è ancora maggiore nei trasporti (in media il 16,3% di salario in meno) e nei servizi alle imprese (-19,8%) anche se riguarda quote marginali di lavoratori (rispettivamente lo 0,6% e lo 0,3%). Il fenomeno però è in crescita. I contratti “minori” in tutto il settore dei servizi riguardano ormai «quasi il 3%» delle unità di lavoro. Per dare certezza alla rappresentanza sindacale Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il 10 gennaio del 2014 un accordo ma dopo 4 anni non è ancora operativo e in ogni caso, trattandosi di un patto tra associazioni di fatto, resta inefficace nei confronti di chi non lo ha firmato. Ci vorrebbe quindi una legge.
Lo studio indaga anche sulla diffusione della contrattazione aziendale che, nonostante la detassazione concessa dai governi, «è rimasta stabile intorno al 20% tra il 2010 e il 2016» coinvolgendo «poco meno della metà» dei lavoratori. Una maggior diffusione della contrattazione decentrata, si legge, favorirebbe «un miglior allineamento tra salari e produttività» di cui c’è gran bisogno.