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 2017  dicembre 28 Giovedì calendario

Studio di Bankitalia sui prodotti finanziari meno trasparenti: Una montagna di titoli a rischio nelle banche francesi e tedesche

Le debolezze delle banche italiane sono visibili; quelle delle banche di altri Paesi dell’euro, specie Francia e Germania, sono nascoste ma potrebbero essere pericolose. Trova ora conferme precise, in un tecnicissimo studio della Banca d’Italia pubblicato ieri, questa tesi da tempo circolante nei nostri confini.
Molte regole sono state inasprite, nel mondo e in Europa, per evitare che un panico finanziario come quello del settembre 2008 si ripeta. Ma ancora nei bilanci delle banche si trova una quantità enorme di titoli finanziari complessi, di intricate scommesse su numeri talvolta inafferrabili, la cui rischiosità forse non è ancora valutata appieno.
Non è sicuro, appunto, che questi titoli valgano davvero le somme per cui sono conteggiati; ovvero che sia possibile venderli a quel prezzo in gran quantità in un momento in cui tutti volessero cederli nello stesso momento (nove anni fa, il prezzo dei «titoli tossici» precipitò appunto a zero dopo il crac della Lehman, per poi recuperare più tardi).
La valutazione dei rischi è terreno di un braccio di ferro continuo tra regolatori e regolati; nello studio («Risks and Challenges of Complex Financial Instruments», ovviamente in inglese) si danno anche alcuni esempi di come i banchieri possono tentare di eludere le norme, spinti dall’incentivo di guadagnare di più riducendo gli accantonamenti di capitale.
Si tratta di cifre immense. Nei dati di fine 2016, le banche soggette alla vigilanza unica di Francoforte (Ssm), ossia le 119 più importanti dell’area euro, detenevano 3600 miliardi di euro in titoli complessi all’attivo, 16% degli attivi totali, e 3100 miliardi al passivo. Le regole vigenti impongono riserve cautelari contro le oscillazioni di valore; ma ne impongono a sufficienza?
Gli 11 autori dello studio (coordinati da F. Potente e R. Roca) mettono in dubbio la suddivisione fin qui corrente nella vigilanza europea, ossia che davvero rischiosi siano solo i titoli di «livello 3», derivati da dati inosservabili. Trovano insicura anche una parte del «livello 2», titoli derivati da dati almeno in parte osservabili, tanto più che il confine tra le due categorie è incerto.
Dimostrare la certezza del pericolo non è possibile, proprio perché la materia è poco trasparente, dicono in Banca d’Italia; ciò che si vuol fare è gettare il seme del dubbio. Ma naturalmente l’interesse nazionale compare: si argomenta che il potenziale rischio non è dissimile da quello dei «Npl», i prestiti non ripagati che ingombrano i bilanci delle banche italiane.
L’analisi su 13 grandi banche dell’area euro (non si fanno nomi, ma è facile capire quali siano) mostra che in caso di un ribasso omogeneo del 5% (improbabile, perché molte scommesse si compensano a vicenda, ma non impossibile) intaccherebbe in modo significativo il loro capitale, con conseguenze pericolose in almeno due o tre casi.
I numeri vanno anche interpretati. Sulla carta, la concentrazione di titoli complessi è più alta nelle banche francesi (44-45% dell’intera area), seguite da quelle tedesche (28-30%) poi dalle spagnole (7-8%), dalle olandesi (6%) e dalle italiane (5-6%). In rapporto alle dimensioni dei sistemi bancari nazionali se la passano male anche Finlandia e Lussemburgo.
Tuttavia, nelle valutazioni dei mercati preoccupano di più le banche tedesche: la Deutsche Bank le cui azioni rispetto a prima della crisi hanno perso più dell’80%, la Commerzbank più del 90%. Mentre le grandi francesi, complessivamente efficienti e ben gestite, sembrano sopportare meglio quel gran carico di titoli dal valore poco ponderabile.
La crisi bancaria italiana è stata diversa: scoppiata più tardi, dopo la doppia recessione economica, nasce dal fatto elementare di debitori che non pagano (grave in quelle dove le erogazioni di credito erano state più clientelari). La grande finanza del continente invece non ha abbandonato del tutto le pratiche di 10 anni fa, far scommesse nel casinò globale, lucrando sulla voglia delle imprese di assicurarsi contro ogni tipo di imprevisti; ma se l’imprevisto fosse unico e grosso, andrebbe tutto all’aria.