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 2017  dicembre 28 Giovedì calendario

Dialetti addio ormai li parlano solo i comici tv

«Perché quei signori parlano in inglese?». Molti anni dopo ce la si ricorda ancora, quella domanda posta da una bambina di città che aveva ascoltato due anziani chiacchierare in un negozio di paese. Il loro idioma non era affatto la lingua inglese, bensì il dialetto del luogo e, proprio perché erronea, l’osservazione infantile sancì per via di istinto e di spontaneità che la lingua madre è ormai l’italiano, per tutti o quasi; l’«altra» lingua non è il dialetto del luogo ma il dialetto del mondo, l’inglese. Così i dati diffusi ieri dall’Istat non arrivano certo inattesi: i dialettofoni sono ormai poco più di otto milioni, pari al 14 per cento degli italiani, e i dialetti si parlano quasi soltanto in famiglia e fra gli intimi, magari mescolandoli all’italiano. Rarissimo è diventato l’uso fra estranei. Sorprendenti non sono, ma bisogna vedere se dati simili siano anche tali da rallegrarsene. In teoria, certo sì: la persistenza dei dialetti ha a lungo costituito un fattore di frammentazione nazionale e di rallentamento dell’alfabetizzazione e per quanto la popolazione italiana sia ancora, nella media, culturalmente deficitaria la lingua nazionale ora – e da decenni – c’è e i trapanesi possono intendersi con i triestini. Nella pratica però succede che si riesca ad avere nostalgia persino delle catene che ci si sia appena cavati di dosso. È vero che le sporadiche azioni politiche per l’uso del dialetto a scuola o nei consigli comunali non hanno mai avuto grande successo. Persino nella storia della Lega lombarda la sostanziale rinuncia alle rivendicazioni linguistiche, nella seconda metà degli anni Ottanta, fu una mossa azzeccatissima da parte di Umberto Bossi: consentì di uscire dal localismo più sterile e di allargare di molto il proprio raggio di influenza. Eppure qui e là si avvertono nostalgie per un mondo che non solo non c’è più ma forse non c’è mai stato davvero. Non è che i nonni dialettofoni fossero tutti degustatori di Porta, Belli, Basile o del Sior Todero Brontolon. Ma forse è piacevole pensarlo, quando l’italiano corrente sembra tanto povero e malcerto, nonché debole nei confronti del colonialismo anglofono. Tanto più che robuste tradizioni letterarie dialettali sono arrivate tranquillamente sino ad oggi, e basterà citare quella poetica romagnola. Il dato che l’Istat non riporta, perché non sarebbe certo di facile computo, è quanto le parlate regionali si siano imposte nella comunicazione mediale in lingua italiana. Non c’è quasi comico che, per caratterizzare i suoi personaggi, non usi una o più inflessioni e anche nei tg chi ha un forte accento non pare far più nulla per neutralizzarlo. Sentire calate brianzole o salentine, liguri o siciliane – per non parlare della dominante romanesca – dovrebbe «fare simpatia» solo nelle zone d’origine. E invece il fatto non è motivo di preoccupazione per alcuno: simpatia o no, l’inflessione marcata «fa» soprattutto schiettezza, spontaneità, mancanza di artificiosità. È quindi apprezzabile in una società per cui è tuttora un valore parlare «come si mangia», e non perché si sia abituati a mangiare dal compianto Gualtiero Marchesi. La vera battaglia non è dunque quella della lingua contro i dialetti e contro l’inglesorum più o meno maccheronico che ci assedia. La vera battaglia è tra gli usi consapevoli e quelli inconsapevoli dei propri mezzi espressivi. In quanto ai dialetti veri e propri, è inevitabile concludere che, salvo eccezioni locali, non sono più lingue che si possano usare tutti i giorni e in tutte le occasioni. La loro indubbia espressività si tramanda però ancora nelle opere letterarie e teatrali, come è stato ed è già per il greco antico e il latino, o anche nelle canzoni. Si possono quindi praticare senza farsene un feticcio da piccolo mondo antico. Averne nostalgia non equivale ad averne memoria: equivale, piuttosto, a dimenticarsi dell’Italia divisa fra chi sapeva parlare solo a pochi simili e chi sapeva e poteva parlare a tutti.