Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 28 Giovedì calendario

Stop agli aiuti Usa per gli emergenti. Il Congresso lascia scadere il programma che azzera i dazi sui prodotti di 120 Paesi

Dopo il taglio ai finanziamenti alle Nazioni Unite deciso a Natale, Washington fa un altro passo verso l’isolamento economico e diplomatico. Il Congresso, concentrato sulla riforma fiscale appena varata, non ha infatti trovato il tempo di rinnovare un programma commerciale che azzera i dazi sulle importazioni di 3.500 prodotti da 120 Paesi in via di sviluppo e che scade il 31 dicembre.
Dall’anno nuovo, chi importa da questi Paesi dovrà sottostare a dazi. Repubblicani e Democratici sostengono di voler riportare in vita il programma nei prossimi mesi: buoni propositi che dovranno misurarsi con le crescenti pressioni per la cancellazione definitiva del Generalized System of Preferences (Gsp).
Istituito con il Trade Act del 1974, è in vigore dal 1976 con lo scopo di promuovere lo sviluppo delle regione più povere. A beneficiarne, però, sono stati anche i settori industriali statunitensi che hanno potuto approvvigionarsi di forniture a basso costo. Nel 2016, il programma ha dato libero accesso agli Usa a 19 miliardi di dollari di merci: materie prime e semilavorati, per il settore manifatturiero e il commercio al dettaglio, che hanno assicurato agli importatori negli Usa un risparmio di circa 700 milioni di dollari di dazi, secondo le stime di alcune associazioni imprenditoriali. In base a un report della Camera di Commercio Usa del 2006, il programma sosteneva 81mila posti di lavoro negli Stati Uniti. Nelle scorse settimane, 350 imprese e associazioni hanno scritto al Congresso per sollecitare il rinnovo del Gsp.
I critici del programma sostengono che tra i Paesi beneficiari ce ne sono alcuni, come l’India, che ormai non possono più considerarsi in via di sviluppo e che pertanto non meritano più il sostegno statunitense. «In India c’è una classe media di 600 milioni di abitanti, probabilmente tre volte più grande della nostra. Certo ci sono alcune sacche di povertà (270 milioni di persone sotto la soglia di povertà, ndr), ma è compito del Governo indiano occuparsene, non del nostro», come ha spiegato qualche giorno fa Dan DiMicco, ex amministratore delegato del gruppo del’acciaio Nucor e oggi consigliere del presidente statunitense Donald Trump.
Parole che riecheggiano quelle pronunciate dal Rappresentante Usa per il commercio, Robert Lighthizer, al vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio di Buenos Aires, una decina di giorni fa: «Alcuni Paesi continuano a violare le regole del commercio internazionale sulla base del loro auto-dichiarato status di economie in via di sviluppo» (l’atteggiamento statunitense ha contribuito in modo determinante al fallimento di quel vertice).
New Delhi, che proprio a Buenos Aires si è scontrata duramente con gli Usa su una serie di dossier (dal proprio programma di sicurezza alimentare alla moratoria sulle violazioni dei brevetti dei farmaci), in questa vicenda ruba alla Cina la parte del bersaglio principale: «L’India scippa la nostra proprietà intellettuale e blocca le nostre esportazioni attraverso un mix di dazi, tasse e burocrazia corrotta», ha dichiarato Curtis Ellis, fondatore dell’Alleanza per gli American Jobs.
Il Gsp scade periodicamente e va rinnovato dal Congresso (in genere con efficacia retroattiva e il rimborso dei dazi pagati dagli importatori durante il periodo di sospensione). Già altre volte il rinnovo non è stato immediato. Per esempio nel 2013, quando il programma restò sospeso per due anni. In quell’occasione, stando all’Associazione Usa dei produttori di abbigliamento e calzature, «il 40% delle imprese che lavoravano sotto l’ombrello del Gsp ritardò o cancellò le assunzioni programmate, il 22% tagliò gli stipendi e il 13% licenziò personale».