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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Max Weber: così l’Occidente ha perso il primato musicale

L’intera storia musicale dell’Occidente si può leggere come il progressivo tentativo di stabilire delle regole: da Pitagora fino al Clavicembalo ben temperato di Bach abbiamo cercato e siamo riusciti a mettere a punto una «armonia ben temperata». Ogni nota, ogni accordo, ogni scala: l’intero universo sonoro doveva essere misurabile. È del 1712 la folgorante definizione del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che riassume in nove parole l’orgoglio per avere saputo dominare con la ragione anche la sfuggente natura del suono: «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» (la musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non sa di calcolare).
Aritmetica e anima per creare un ordine, quasi il compositore potesse diventare simile a un dio che accorda il moto dell’universo. La musica degli uomini specchio della musica celeste. Ma in questa ricerca che cosa abbiamo perduto? Se lo chiede Max Weber nello scritto I fondamenti razionali e sociologici della musica, uno testo ampio e incompiuto, pubblicato nel 1921, un anno dopo la morte del grande intellettuale e scrittore tedesco, uscito in Italia a cura di Enrico Fubini nel 1961 e ora ripubblicato dal Saggiatore con il titolo Sociologia della musica (pp. 183, € 19).
Le eredità mediorientali
Weber, che qui fonda una disciplina portata nel Novecento da Theodor Adorno a esiti altissimi e oggi considerata imprescindibile, rivendica la nostra appartenenza e discendenza: «Soltanto l’innalzamento della musica polivocale alla dignità di arte scritta ha creato il vero e proprio “compositore” e ha assicurato alle creazioni polifoniche dell’Occidente, a differenza di tutti gli altri popoli, durata, risonanza e un costante sviluppo».
Questo primato ha portato con sé alcune rinunce. I Greci della classicità, gli Arabi, gli Indiani e gli Asiatici sono stati e rimangono più sensibili di noi alle tante sfumature possibili del suono, perché meno preoccupati di sistematizzare la musica, di scriverla. Di dividere i suoni tra «razionali» e «irrazionali»: dove per «razionali» si intendono i suoni compresi all’interno della nostra scala e per «irrazionali» quelli che abbiamo deciso di non comprendere; tra due note – ad esempio tra il do e il re – noi europei abbiamo stabilito che può trovare spazio soltanto un’altra nota – il do diesis o il re bemolle – mentre la verità naturale del suono ci dice che tante altre sono le differenze che possiamo percepire.
E se i cantanti italiani sono in genere più intonati dei colleghi tedeschi, scrive Weber, è perché nei territori del Sud dell’Europa e mediterranei si può ancora percepire, ad esempio nelle tradizioni popolari, la presenza delle più antiche eredità greche e mediorientali, quando il moderno sistema armonico non era ancora codificato. Weber, sottolinea la curatrice e traduttrice Candida Felici, «mette in guardia dal ritenere che la presenza di intervalli irrazionali sia propria delle musiche primitive», alle quali va riconosciuta piena dignità, e con il suo caratteristico disincanto insiste sull’importanza, per formare il nostro giudizio di valore, dell’abitudine all’ascolto di determinate musiche a discapito di altre.
Un Pensiero di Leopardi
Il primo a riconoscere il ruolo decisivo della consuetudine, cioè della pratica culturale, nel determinare il gusto, le predilezioni come le esclusioni, era stato Giacomo Leopardi in un Pensiero (il n. 3230), allora stupefacente, dello Zibaldone: «Io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi incominciai) trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche».

I dubbi che, un secolo fa, si affacciavano nell’argomentare di Weber appaiono oggi risolti in una esplicita rinuncia da parte di antropologi e etnomusicologi a qualsiasi ipotesi di primato riconoscibile alla musica europea, compresa la sua tradizione colta: «La lettura della presente opera dimostrerà come siano oggi superate quelle dicotomie che, più o meno coscientemente, ci confortavano in un certo senso di superiorità: l’orale e lo scritto, il sacro e il profano, lo statico e lo storico, la natura e la cultura, il rurale e l’urbano, il semplice e il complesso, l’autentico e l’inautentico», scriveva all’inizio del presente millennio Jean-Jacques Nattiez, presentando l’Enciclopedia della musica pubblicata da Einaudi.
Regola versus natura
Una pietra tombale, probabilmente incauta, in ogni caso oggi globalmente condivisa dalla maggioranza degli studiosi. E nel 1977 Arvo Pärt invitava a ricominciare facendo del nostro passato Tabula rasa, fortunatissima opera creata nel 1977 dal compositore estone che ha segnato la stagione, tutt’altro che conclusa, del neo-spiritualismo musicale e del recupero di pratiche compositive tipiche dell’antica modalità.
Weber dedica riflessioni acute alla storia dello strumento principe dell’Occidente, il pianoforte, messo a punto all’inizio del Settecento dall’italiano Bartolomeo Cristofori e passato nell’Ottocento da una produzione artigianale a una industriale per soddisfare la crescente domanda della borghesia, soprattutto del Centro e del Nord Europa: «Tutta la nostra educazione alla moderna musica armonica si basa sostanzialmente sul pianoforte, e ciò anche nel suo aspetto negativo, poiché l’abitudine al temperamento ha certamente tolto al nostro orecchio – l’orecchio del pubblico che ascolta – dal punto di vista melodico una parte di quella finezza che dava l’impronta decisiva alla raffinatezza melodica della cultura musicale dell’antichità». Ancora una volta, regola versus natura, nella concretezza del divenire della storia e delle scelte che in essa operiamo.