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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

La morte di Stalin? È una farsa

La sera del 28 febbraio del 1952 Radio Mosca diffonde in diretta il Concerto n.23 di Mozart. Tra gli ascoltatori c’è Stalin, che nella dacia di Kountsevo sta chiudendo le ultime liste di nemici ed ex amici da liquidare («sì, spara prima alla moglie e assicurati che lui assista»). Il dittatore telefona per avere la registrazione, che non esiste: viene realizzata in fretta e furia costringendo al bis gli orchestrali, il pubblico reclutato dalla strada. Al disco la pianista allega un biglietto carico di odio. Il dittatore legge, ride, e stramazza colpito da un ictus. È il surreale avvio di Morto Stalin, se ne fa un altro, commedia degli orrori incentrata sulla lotta per la successione tra i membri del Comitato centrale, consumata tra intrighi, delazioni, bassezze nei giorni che precedono l’annuncio ufficiale e durante i funerali di Stalin. Firma la farsa (passata a Toronto e al Torino Film festival, in sala il 4 gennaio) lo specialista Armando Iannucci ( Veep- Vice presidente incompetente): «Da tempo volevo occuparmi di figure populiste come Putin, Berlusconi, Le Pen o Farage. Era prima dell’avvento di Trump. Ma il produttori francesi mi hanno proposto la grapic novel di Fabrien Nury e Thierry Robison (edita in Italia da Mondadori, ndr) che mi ha colpito: tutti gli eventi assurdi e terrificanti sono veri, quel miscuglio di tragedia e commedia appartiene alla storia». Agli elementi del romanzo grafico si sono aggiunti i dettagli frutto di ricerche: «Siamo andati a Mosca, visitato archivi, incontrato gente cresciuta sotto Stalin: ci hanno raccontato della borsa sempre pronta vicino alla porta, i vestiti sotto il pigiama in caso di arresto. E le liste, le uccisioni di massa». L’idea vincente di Iannucci è la scelta degli interpreti: Steve Buscemi un gesticolante ambizioso Krusciov (leader dell’Unione Sovietica dopo la morte di Stalin), Michael Palin è l’indeciso Molotov, Simone Russell Beale il depravato Beria, Jason Isaacs il vanitoso generale Zukov, Jeffrey Tambor il pusillanime Malenkov, Olga Kurylenko è la pianista sovversiva. «Non abbiamo voluto accenti posticci e i giornalisti russi ci hanno ringraziato. L’Unione Sovietica era un crogiuolo di popoli diversi e per restituirlo ho scelto attori americani e inglesi, di estrazione teatrale o televisiva». I mesi di prove prima del set hanno assicurato l’alchimia delle battute comiche alternate a momenti raggelanti. «La cosa più difficile è stata mantenere l’equilibrio tra commedia e tragedia, senza che nessuno dei due elementi oscurasse l’altro. Il lavoro grande è stato fatto al montaggio: abbiamo sacrificato battute, spostato in avanti le scene di tortura, gli stupri, le stragi della folla di russi che arrivava a Mosca per rendere omaggio alla salma. Il pubblico lo accetta perché sa che alla base c’è un lavoro accurato in ogni dettaglio». Non sono mancate le proteste in Russia, «provenivano solo da una parte del partito comunista. Il ministro della Cultura ha assicurato che uscirà in sala». Iannucci è un regista scozzese di padre italiano, «papà è stato un partigiano. Ma non vota più, nemmeno in Scozia: l’ultima volta che l’ho fatto in Italia, racconta ancora, hanno eletto Mussolini». È cresciuto con la passione per la satira politica e negli ultimi dieci anni si è fatto notare con la serie BBC The thick of it e il film In the loop, fino alla sere Veep con la vicepresidente senza cervello. «Il momento peggiore è stato a fine anni Novanta: le emittenti pensavano che la gente non fosse più interessata alla politica. Oggi invece i giovani lo sono, forse perché vogliono capire perché stanno ereditando un futuro così incerto». Perciò sono tornati in auge i film sulle figure storiche. «Sono curioso di vedere il Berlusconi di Sorrentino. Il Divo mi folgorò con la sua aria giocosa e un’efficacia narrative lontana dalla ricostruzione letterale che appesantisce i biopic al cinema».