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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Tanti auguri mostruoso Frankenstein

Il primo gennaio del 1818 usciva il romanzo di Mary Shelley con protagonista la creatura che avrebbe ispirato il cinema. E che, duecento anni dopo, continua a terrorizzare e ad appassionare. Perché ci assomiglia Dunque, se come abbiamo sempre sperato è sopravvissuta, la Creatura sta per compiere 200 anni: per la precisione il prossimo primo gennaio. Concepito nel giugno del 1816, in occasione del famoso certame letterario che coinvolse Byron, Shelley, Polidori e Mary Wollstonecraft, e terminato nella primavera dell’anno successivo, il romanzo Frankenstein ovvero il Prometeo moderno fu pubblicato infatti solo il primo giorno del 1818 (anche se l’edizione definitiva è del 1831). Auguri e lunga vita a lei-lui-esso, cui l’umanità ha da tempo deciso cosa regalare: il nome stesso di Frankenstein. Non c’è bambino o ragazzo che non lo abbia sempre chiamato così, e non c’è filologo che manchi di correggere: Frankenstein è lo scienziato, il faustiano barone Victor, la sua creazione è anonima, non avendo ricevuto dalla scrittrice altro che i termini di creatura, mostro, demone, abominio. Eppure quest’essere dalla testa imbullonata – la storia del cinema ce lo conferma – ha avuto una moglie e un figlio, ha combattuto contro l’Uomo-Lupo, contro Dracula e contro la Mummia, e finalmente è stato amato dal pubblico come (forse) solo King Kong. C’è una profonda giustizia in questo, una giustizia che coincide con la vendetta del personaggio nei confronti di un padre scienziato che lo ha rinnegato con disgusto nel momento stesso in cui lo ha visto animarsi, e di una madre scrittrice che non lo ha mai amato; anzi, che dopo averlo utilizzato come pruriginosa ipotesi scientifica se ne è progressivamente allontanata ad ogni nuova redazione. Sempre più complesso nella struttura centrifuga (come nel Dracula di Bram Stoker si moltiplicano le cornici narrative, gli spostamenti del punto di vista, le trascrizioni di lettere e documenti vari), il romanzo ci presenta prima un non-personaggio pressoché escluso dalla macchina narrativa, poi, quando finalmente lo recupera, lo fa uccidendolo come mostro e facendolo parlare come un pensoso umanista: ancora “mostro” in quanto si sa che ha ucciso, ma fondamentalmente un uomo civilizzato, visto che non senza civetteria racconta a Victor la propria vita, i propri viaggi, le proprie letture (Plutarco, Milton e I dolori del giovane Werther!), il proprio modernissimo disagio esistenziale (un po’ come se, al termine del proprio percorso di educazione sensoriale, la statua di Condillac tenesse una conferenza sul sensismo). E se ancora appare allo scienziato come un nemico, anziché come il proprio doppio, è solo per una richiesta a sua volta umanissima, quella di avere un compagna per potersi sentire meno solo. È qui che la scrittrice diventa spietata, di fronte all’eventualità che da quella unione nasca la vita, non la vita proibita e meccanica del golem o dello zombie, quella progettata da Victor per mera scommessa intellettuale e per esaltazione letteraria, ma la vita vera, la vita viva (“uno dei risultati di quegli affetti ai quali il demone anelava sarebbero stati dei figli: sulla Terra si sarebbe propagata una razza di demoni che avrebbe potuto mettere in pericolo e colmare di terrore l’esistenza della specie umana”). Ma senza quel sogno l’ex mostro non può vivere, dunque, come annuncia solennemente, si suiciderà lontano da sguardi umani, accendendo nella notte artica la propria pira. Fino all’ultimo, in ogni caso, il moribondo Victor si raccomanda perché l’originale peccato prometeico sia emendato, anche se la logica del contrappasso vorrebbe che fosse lui a perire fra le fiamme, non chi non ha chiesto di essere messo al mondo e non si capacita della propria esistenza. Ma Victor non può essere punito, per la semplice ragione che si trattava di Shelley, il cui pseudonimo giovanile era appunto Victor: Shelley che Mary adorava e che mise pesantemente mano nella revisione del testo. Come se non bastasse, “the Victor”, il Vincitore, è uno degli epiteti di Dio nel poema di Milton: e poiché il vinto è Satana, come vinti da Zeus furono i Titani, ne scende che qui la colpa, scavalcando Prometeo o Faust, deve riguardare direttamente lo scandalo: il quale, però, è tutto sintomatico, coincidendo non con l’artificialità della creatura ma, immediatamente, con la sua bruttezza: la bruttezza che spinge Victor a ripudiarlo subito, la bruttezza di cui, come Saffo, egli si renderà pienamente conto quando sarà in grado di apprezzare la bellezza della natura: e anche per questo, come Saffo, si suiciderà, scegliendo argutamente di farlo là dove la pittura di Friedrich stava individuando il sublime alla moda: nel paesaggio ghiacciato del Nord.Un secolo di cinema ci ha abituato all’idea che, inseguito e linciato da una folla di paesani armati di forconi e di torce accese, Frankenstein (Frankenstein, sì, Boris Karloff) sia in qualche modo scampato alle fiamme per ricomparire in altre pellicole. E se anche il verboso autobiografo del libro, all’ultimo momento, avesse rinunciato a immolarsi? Di più, se per via di qualche incidente meccanico o shock anamnestico avesse riperso l’uso della ragione e della parola, e fosse tornato lo spettacolare demente che caracolla mugolando verso di noi? Inconsapevole delle proprie tare e manchevolezze sarebbe certamente più felice; ma soprattutto, goffo ed emozionato come ce lo immaginiamo, sarebbe perfetto per soffiare su 200 candeline e per fare esplodere la torta con le sue manone, mentre gli astanti, travolti dagli schizzi dolciastri, riconoscono all’unisono che “il film è meglio del libro”.