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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Un problema politico chiamato disuguaglianza

La disuguaglianza è stata considerata la colpevole degli exploit populisti del 2016 e 2017. Ma cos’è? E che ruolo gioca nell’inibire o incoraggiare la crescita o nel minacciare la democrazia?
La disuguaglianza uccide, portando le persone al suicidio o alle “morti per disperazione”? Oppure è un male necessario che dobbiamo tollerare a certi livelli?
Queste sono le domande che spesso mi fanno. Ma, a dire la verità, nessuna di queste è particolarmente utile, degna di una risposta o anche soltanto ben posta. La disuguaglianza non è tanto una causa dei processi economici, politici e sociali quanto una conseguenza. Alcuni di questi processi sono positivi, altri no, e alcuni sono davvero deleteri. Solo distinguendo il buono dal cattivo possiamo comprendere la disuguaglianza e capire cosa fare.
Disuguaglianza e ingiustizia
Inoltre, la disuguaglianza non è la stessa cosa dell’ingiustizia; e, secondo la mia opinione, è quest’ultima che ha alimentato così tanto le turbolenze politiche nel mondo ricco di oggi. Alcuni dei processi che generano disuguaglianza sono ampiamente considerati come giusti. Ma altri sono profondamente e ovviamente ingiusti, e sono diventati una fonte legittima di rabbia e disaffezione.
Nel primo caso, è difficile andare contro gli innovatori che diventano ricchi introducendo prodotti o servizi che vanno a vantaggio di tutto il genere umano. Alcune delle maggiori disuguaglianze oggi sono “figlie” delle rivoluzioni industriali e sanitarie cominciate intorno al 1750. Da principio, questi processi sono andati a vantaggio solo di qualche Paese nell’Europa nordoccidentale. Ma nel tempo hanno migliorato le condizioni di vita e la salute di miliardi di persone nel mondo. Le disuguaglianze che derivano da questi progressi sono benefiche e giuste, e rappresentano una caratteristica chiave del progresso in generale.
Dall’altro lato, diventare ricchi corrompendo lo stato in cambio di favori è chiaramente ingiusto. Molte persone negli Stati Uniti – più che in Europa – automaticamente considerano le conseguenze del capitalismo o del mercato come giuste e l’azione governativa come arbitraria e ingiusta. Si oppongono al governo o a programmi sponsorizzati dalle università che sembrano favorire gruppi particolari, come minoranze o immigrati. Ciò contribuisce a spiegare perché molti americani della classe operaia bianca si sono rivoltati contro il Partito democratico, che vedono come il partito delle minoranze, degli immigrati e delle élite. Ma un’altra ragione del crescente malcontento pubblico è che i salari mediani reali (ovvero corretti per gli effetti dell’inflazione) negli Usa ristagnano da 50 anni.
Due spiegazioni possibili
Ci sono due spiegazioni sulla divergenza tra i redditi mediani e quelli elevati, ed è molto importante quale delle due sia corretta. La prima attribuisce questo divario a processi inarrestabili come la globalizzazione e l’innovazione tecnologica, che hanno svalutato il lavoro non qualificato e favorito le persone ben istruite. La seconda spiegazione è più sinistra e sostiene che la stagnazione dei redditi mediani è in realtà il risultato diretto dell’aumento dei redditi e della ricchezza ai vertici. In questo scenario, i ricchi diventano sempre più ricchi a spese di tutti gli altri.
Studi recenti suggeriscono che ci sia del vero nella seconda spiegazione, almeno negli Stati Uniti. Anche se la globalizzazione e il cambiamento tecnologico hanno scombinato le tradizionali modalità di lavoro, entrambi i processi hanno il potenziale per avvantaggiare tutti. Il fatto che non abbiano apportato vantaggi diffusi suggerisce che i ricchi abbiano tenuto i benefici per sé stessi. Ci vorrà molto più lavoro per determinare quali politiche e processi stanno frenando le retribuzioni delle classi media e operaia, e di quanto, ma quello che segue è un elenco preliminare.
Le rendite della sanità
In primo luogo, il finanziamento dell’assistenza sanitaria sta avendo un effetto disastroso sui salari. Dal momento che l’assicurazione sanitaria della maggior parte degli americani è fornita dai datori di lavoro, i salari dei lavoratori stanno di fatto finanziando i profitti e gli alti stipendi nell’industria medica. Ogni anno, gli Stati Uniti sprecano mille miliardi di dollari – circa 8mila dollari per famiglia – in più rispetto ad altri Paesi ricchi per i costi eccessivi dell’assistenza sanitaria, ottenendo peraltro risultati peggiori di quasi tutti gli altri. Un qualunque modello alternativo di stampo “europeo” potrebbe recuperare quei fondi, ma innescherebbe la fiera resistenza di coloro che ora traggono profitto dallo status quo.
Un problema correlato è il crescente processo di consolidamento del mercato in molti settori dell’economia. Come risultato delle fusioni ospedaliere, ad esempio, i prezzi degli ospedali sono aumentati rapidamente, ma i salari ospedalieri no, nonostante una carenza decennale di infermieri. L’aumento della concentrazione del mercato è probabilmente un fattore alla base della crescita lenta della produttività. Dopo tutto, è più facile raccogliere profitti attraverso la ricerca di posizioni di rendita e monopoli che attraverso l’innovazione e gli investimenti.
Salari, clausole, migranti e outsourcing
Un altro problema è che il salario minimo federale degli Stati Uniti – 7,25 dollari all’ora – non cresce dal luglio del 2009. Nonostante l’ampio sostegno pubblico, aumentare il salario minimo è sempre difficile, a causa dell’influenza sproporzionata esercitata sul Congresso dalle grandi imprese e dai donatori più facoltosi. A peggiorare le cose, oggi oltre il 20% dei lavoratori è vincolato da clausole di non concorrenza, che riducono il potere contrattuale dei lavoratori – e quindi i loro salari. Allo stesso modo, 28 Stati degli Stati Uniti hanno ora emanato le cosiddette leggi sul “diritto al lavoro”, che proibiscono accordi di contrattazione collettiva che richiederebbero ai lavoratori di unirsi ai sindacati. Di conseguenza, le controversie tra imprese e consumatori o lavoratori sono risolte sempre più spesso per via extragiudiziale attraverso arbitrati – un processo enormemente favorevole alle imprese.
Ancora, un altro problema è l’esternalizzazione, non solo all’estero, ma anche negli Stati Uniti, dove le imprese stanno sostituendo sempre più lavoratori salariati o a tempo pieno con lavoratori autonomi. I lavoratori nel settore della ristorazione, i custodi e gli addetti alla manutenzione che facevano parte di aziende di successo ora lavorano per entità con nomi come Aaa-Service Corporation. Queste aziende operano in un settore caratterizzato da salari decisamente bassi e offrono pochi, o nessun, benefit e modeste opportunità di avanzamento.
Il credito d’imposta sul reddito (Eitc) ha garantito un aumento degli standard di vita per molti lavoratori americani a basso reddito. Ma, poiché è disponibile solo per coloro che lavorano, tende a comprimere i salari, cosa che con benefici incondizionati, per esempio con la concessione del reddito di base, non avverrebbe.
Anche l’immigrazione non qualificata rappresenta un problema per gli stipendi, anche se si tratta di un argomento controverso. Si dice spesso che gli immigrati prendono posti di lavoro che gli americani non vogliono. Ma tali affermazioni sono prive di significato senza fare riferimento ai salari. È difficile credere che gli stipendi degli americani poco qualificati sarebbero rimasti così bassi come è successo, in mancanza di flussi di immigrati non qualificati. Come ha sottolineato l’economista Dani Rodrik 20 anni fa, la globalizzazione rende la domanda di lavoro più elastica. Quindi, anche se la globalizzazione non riduce direttamente i salari, rende più difficile per i lavoratori ottenere un aumento di stipendio.
La minaccia della deregulation
Un altro problema strutturale è che il mercato azionario non premia solo l’innovazione, ma anche la redistribuzione dal lavoro al capitale. Ciò si riflette nella quota degli utili rispetto al Pil, che è cresciuta dal 20% al 25% in un periodo in cui i salari mediani sono rimasti fermi. L’aumento sarebbe ancora più alto se i salari dei top manager fossero considerati come profitti piuttosto che come salari.
L’ultimo problema di questo elenco preliminare è politico. Siamo entrati in una stagione di falò di regolamentari. L’Ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori, nonostante abbia scoperto importanti scandali, è sotto minaccia, così come la legge Dodd-Frank del 2010, che ha introdotto misure per prevenire un’altra crisi finanziaria. Inoltre, il presidente Usa Donald Trump ha dichiarato di voler eliminare una legge che impone ai gestori di risparmi di agire nel migliore interesse dei loro clienti. Tutte le “riforme” di deregolamentazione attualmente proposte andranno a beneficio del capitale e a spese dei lavoratori e dei consumatori.
Lo stesso vale per le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti degli ultimi anni. La decisione della corte nel caso Citizens United v. Fec (Federal Election Commission), ad esempio, ha offerto agli americani facoltosi e persino alle multinazionali la possibilità di spendere somme quasi illimitate per sostenere i candidati e ottenere risultati legislativi e normativi favorevoli.
Un raggio di speranza
Se questo quadro fatto di salari medi stagnanti e salari alti in aumento è corretto, allora potrebbe esserci un raggio di luce nella nostra era della disuguaglianza, poiché significherebbe che il mercato del lavoro disfunzionale degli Usa non è la conseguenza di processi inarrestabili come la globalizzazione e il cambiamento tecnologico.
Il progresso condiviso può essere raggiunto con politiche pensate per avvantaggiare consumatori e lavoratori. E tali politiche non devono neanche includere un meccanismo di redistribuzione su base fiscale che molti lavoratori disapprovano. Piuttosto, possono focalizzarsi sui modi per incoraggiare la competizione e scoraggiare la ricerca di rendite. Con le giuste politiche, la democrazia capitalista può lavorare meglio per tutti, non solo per i ricchi. Non dobbiamo abolire il capitalismo o nazionalizzare in maniera selettiva i mezzi di produzione. Ma dobbiamo riportare il potere della competizione a servizio delle classi medie e operaie.
Premio Nobel per l’Economia nel 2015, professore di Economia all’Università della Southern California e di Economia e affari internazionali alla Woodrow Wilson School of Public and International Affairs di Princeton