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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Se i cattivi di Gomorra diventano «umani» a tutto tondo

La terza stagione di Gomorra è terminata pochi giorni fa con un finale straziante, una spietata resa dei conti tra Genny Savastano e il suo luogotenente Ciro consumata su uno yacht in mezzo al mare; Napoli bellissima e brutale che li osserva muta sullo sfondo. Due personaggi votati all’abisso, due destini ugualmente tragici compiuti in forma diversa: lo scontro finale è l’esito di un rapporto fondato su sentimenti contradditori, odio, amore, invidia, ammirazione.
Una conferma che la serie non è solo un livido ritratto del modus operandi criminale della camorra e dei suoi affiliati, ma è anche un racconto complesso di relazioni, emozioni primordiali, condizioni umane. Questo è il suo bello, ma è anche l’aspetto che ha suscitato un coro di polemiche: se i personaggi non sono solo stereotipi di «cattivi» ma diventano esseri umani a tutto tondo, le psicologie finemente ritagliate, il fascino del racconto aumenta e la strada interpretativa più facile (e sterile) diventa quella di accusare la serie di essere diseducativa, di esaltare i criminali, com’è già successo ad altri capolavori tv (vedi le polemiche sui Soprano e la rappresentazione negativa degli italoamericani).
Ma non sarà invece che rappresentare il male serve a capirlo? Osservata nel suo complesso, tutta la terza stagione della serie è una riflessione sull’essere orfano e sul raccogliere l’eredità paterna, nelle gerarchie di Secondigliano e a Forcella, con San Gennaro che vigila su un gruppo di giovani camorristi mascherati da hipster (il sociologo Hebdige parlerebbe di «subcultura»).
Se fossimo in una serie Usa si potrebbe parlare di «bromance», di quel profondo rapporto non romantico che si crea tra uomini (da brother, fratello). Lo vediamo tra Ciro e Gennaro, tra Enzo «sangue blu» e Valerio, ancora tra Enzo e Ciro. «Chille è fratm»: dopo aver ucciso i padri, simbolicamente e materialmente, ci si riscopre fratelli.