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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Il paradosso di Mister Fed: crescere troppo

Non è un economista né un uomo di Wall Street, ma un giurista trasformato in banchiere centrale, l’uomo che il 3 febbraio prenderà le redini della politica monetaria americana quando Janet Yellen lascerà la presidenza della Federal Reserve. Del resto, più ancora che sull’esperienza maturata lavorando al Tesoro e nel sistema bancario, d’ora in poi Jerome Powell dovrà contare soprattutto sulla capacità di resistenza psicologica acquisita negli anni in cui ha studiato dai gesuiti: il pericolo più grande per il nuovo capo della Banca centrale Usa è quello di vedere la propria credibilità minata dagli attacchi del presidente che lo ha appena nominato.
Transizione senza traumiAffidandosi a Powell, Donald Trump ha rotto coi precedenti presidenti, tanto repubblicani quanto democratici, che negli ultimi decenni hanno sempre confermato i capi della Fed, anche se di orientamento politico opposto al loro. Trump, pur elogiando pubblicamente la Yellen, l’ha messa alla porta. Al suo posto, però, non ha scelto un radicale anti Fed come chiedeva la sua base populista, ma un conservatore equilibrato, intenzionato a gestire la politica monetaria nel solco tracciato dalla Yellen: una linea che lui stesso ha contribuito a costruire, visto che dal 2012 Powell siede nel board dell’istituto di emissione per scelta di Barack Obama.
Ci sono, quindi, tutte le condizioni per una transizione senza traumi: sul piano politico The Donald sembra essere consapevole che la gestione del credito e del dollaro va lasciata fuori dalle polemiche feroci a base di raffiche di tweet che lui alimenta quasi quotidianamente, mentre i democratici hanno dimostrato di voler appoggiare Powell. La sua ratifica è passata in commissione, al Senato, con un voto quasi unanime: 22 a 1. Sul piano economico, poi, le condizioni di mercato sembrano destinate a restare stabili anche nel 2018, con l’economia che continuerà a crescere per il nono anno consecutivo, anche se non al ritmo ipotizzato da Trump, convinto che la sua riforma fiscale pro imprese alimenterà un boom di investimenti, produzione e occupazione. Con una crescita doppia rispetto al 3% del 2017.
La Fed non lo smentisce («tutto è possibile») ma prevede un effetto della riforma tributaria assai più limitato: crescita Usa dal 2,1 al 2,5%. I guai per Powell possono nascere proprio qui. Se la riforma-architrave di Trump non avrà l’impatto sperato sull’economia, o se arriverà addirittura qualche crollo improvviso, il presidente, sempre alla ricerca di capri espiatori anche tra le persone scelte da lui (vedi i frequenti attacchi al suo ministro della Giustizia, Jeff Sessions), potrebbe prendersela con Powell.
Il quale corre un rischio anche peggiore qualora gli sconti sulle tasse avessero, invece, un impatto molto forte sull’economia: una riforma che mette nel motore americano la benzina di altri 1.500 miliardi di dollari di sgravi in 10 anni rischia di surriscaldare un sistema che già cresce a buon ritmo. Se questa spinta dovesse riaccendere l’inflazione, Powell potrebbe essere costretto a usare più del previsto l’estintore dell’aumento dei tassi d’interesse: vedremmo, allora, un Trump furioso. Per ora, però, gli indicatori fanno prevedere un passaggio del testimone senza traumi: il ministro del Tesoro Steven Mnuchin si è battuto con successo per la nomina di Powell proprio perché vede in lui il naturale continuatore della linea Yellen, molto apprezzata anche dal mondo finanziario. L’economista progressista nel suo mandato ha gestito senza scosse ben 5 aumenti dei tassi d’interesse, tre dei quali nel 2017. E per il 2018 la Fed ha annunciato (col voto favorevole anche di Powell) di volerne mettere in cantiere altri tre. Per uscire dal regime d’emergenza seguito al crollo del 2008 la Yellen ha, poi, avviato senza traumi anche una (lenta) riduzione dell’enorme portafoglio di obbligazioni pubbliche e private acquistate negli anni scorsi per sostenere l’economia (il bilancio è passato da 800 a 4.500 miliardi di dollari).
Banche con meno vincoliIl presidente, populista in politica ma imprenditore pragmatico in finanza, dovrebbe continuare ad assecondare questa normalizzazione della politica monetaria, mentre certamente premerà per disfare le scelte dell’era Obama in un altro campo: le regole per banche e Wall Street. Qui si delinea una nuova deregulation ma senza svolte drastiche: Powell apprezza la legge Dodd-Frank con le sue norme per limitare i rischi di un altro «infarto» finanziario come quello del 2008, ma è favorevole all’allentamento dei vincoli più severi. Soprattutto quelli per gli istituti più piccoli che faticano ad adeguarsi ai nuovi requisiti.
Trump avrà, comunque, la possibilità di plasmare la politica monetaria e regolatoria come nessun altro, visto che potrà rimodellare con le sue nomine non solo la guida della Fed, ma anche gran parte del suo board scegliendo, nel primo biennio alla Casa Bianca, 5 dei 7 membri di nomina presidenziale. A parte Powell, Trump ha già fatto altre due scelte di sapore centrista con l’economista monetario della Carnegie Mellon University, Marvin Goodfriend, e scegliendo, come vicepresidente dell’istituto, Randal Quarles, un finanziere vicino a Powell. I populisti si aspettavano scelte più anti establishment: ad esempio John Taylor. Trump ha ancora tre cartucce da sparare, ma per ora sembra orientato soprattutto ad assecondare la prudenza di Mnuchin.