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 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

Dalla Catalogna ai villaggi austriaci. La geografia spiega il populismo

In una vecchia storia una divinità scende dal cielo per promettere a un contadino che esaudirà all’istante un suo desiderio, uno solo. A una condizione, tuttavia: qualunque sia il regalo che il contadino chieda, il suo vicino ne riceverà il doppio. L’uomo ci pensa sopra e risponde: «Signore, ti prego, toglimi un occhio».
Chiunque abbia inventato questa leggenda, oggi potrebbe assegnare un nome catalano al suo protagonista. Fra il 2 e il 23 ottobre, nelle settimane del referendum per l’indipendenza, quasi 1.400 aziende hanno avviato le procedure per lasciare la Catalogna (le stime sono dell’associazione delle Camere di commercio spagnole). La lista delle imprese comprende grandi datori di lavoro e gruppi alla frontiera dell’innovazione come CaixaBank o Oryzon Genomics. Per questo, quali che siano le motivazioni che giovedì scorso hanno spinto milioni di catalani a dare ai secessionisti una maggioranza di seggi nel Parlamento catalano (ma non nel numero dei voti), l’impatto sull’economia non dev’essere stato una priorità. Non sarebbe un fenomeno nuovo. Anche la maggioranza degli inglesi che oggi continua a preferire il divorzio dall’Unione Europea, l’anno scorso aveva sentito molte volte le stesse previsioni che ora si stanno avverando: il crollo della sterlina ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie e l’economia del Regno Unito, fra tutte le democrazie avanzate, resta la sola in rallentamento.
Non è chiaro se questi elettori abbiano chiesto a un dio di privarli di un occhio, ma la distribuzione del voto in Catalogna o per la Brexit fa sospettare che i due occhi dei loro vicini siano parte della protesta. Non apprezzano, in chi abita loro accanto, i mezzi per controllare la propria vita. I tassi di disoccupazione dei vari gruppi non spiegano il nazionalismo catalano, non direttamente: nella grande provincia di Barcellona dove giovedì sono state depositate nelle urne 3,2 milioni di schede, certe aree con più disoccupati (Vallès Occidental o Maresma) hanno votato i secessionisti meno di altre aree con alti tassi di impiego più elevati (Alt Penedes od Osona). Neanche l’età degli elettori sembra il fattore decisivo in Catalogna, a differenza dalla Brexit votata dai più anziani e avversata invece dai giovani. La provincia di Girona, la più secessionista fra le quattro della Catalogna, registra un’età media degli abitanti di tre anni più bassa di Barcellona dove due terzi dei voti sono andati agli unionisti. Esistono anziani e disoccupati che vogliono restare (anche) spagnoli, così come giovani invaghiti del particolarismo catalano anche a costo di mettere in pericolo il proprio posto di lavoro.
Ciò che conta, nel dividere gli uni dagli altri, è piuttosto la geografia: il grado di vicinanza o lontananza dalle città, la densità di popolazione del proprio luogo di residenza, il grado di isolamento del territorio. Così nel Barcelonès (Barcellona-città), sede di 1,4 milioni di voti, del 47% delle imprese e dei 51% dei posti di lavoro della provincia, ben due terzi degli abitanti hanno votato partiti favorevoli all’unità spagnola. Non vogliono rompere in nome del nazionalismo. Invece nelle aree di Berguedà e Osona – territori molto più vasti della capitale, ma spopolati e provinciali – gli appena 120 mila voti sono andati al 70% ai secessionisti. Il nesso fra campagne e voto secessionista è visibile ovunque. Fra le quattro provincie catalane, maggioranze indipendentiste sono emerse in quelle contrassegnate da villaggi e piccoli centri, Girona e Lleida. Persino a Tarragona, più piccola ma urbana, il 54% è per lo status quo. 
Non va così solo in Catalogna. Né solo nel Regno Unito, dove il messaggio nazionalista pro Brexit ha perso in tutte le grandi città e vinto nelle piccole meno che nei villaggi. Un fenomeno simile emerge anche in Austria, nel voto di ottobre per la destra estrema della FPÖ. Sankt Urban e Sankt Pankraz, dove il partito nazionalista segna il record di consensi, sono villaggi isolati ai piedi delle Alpi. La Stiria, il Land dove la FPÖ strappa l’affermazione maggiore sfiorando il 30%, è coperta quasi per intero di foreste, pascoli, vigneti e piantagioni di frutta. Eppure a Graz, città capoluogo della Stiria, la FPÖ resta sotto le medie nazionali e in centro non supera il 12%. Anche nel centro di Vienna la FPÖ è relegata al 10%, quando invece cattura un terzo dei consensi nella periferia deindustrializzata di Simmering (un’ex bastione rosso, dove i nazisti subirono la loro peggiore disfatta nelle elezioni austriache del 1932). La stessa rivolta delle campagne si nota in Polonia: i nazionalisti di Legge e giustizia hanno perso nelle città di Varsavia, Cracovia, Lodz e Katowice alle presidenziali del 2015, pur dominando i territori tutto intorno.
Quanto a Donald Trump e al suo «America first», i dati dello Stato di New York sono emblematici: a Manhattan, l’area più densa con 27 mila persone per chilometro quadrato, Trump incassa la sua disfatta peggiore al 9,7%. Invece nella contea di Hamilton, la più spopolata dello Stato di New York con un abitante al chilometro, ha il più grande trionfo con il 70%. Piccole comunità, quando si sentono emarginate da decisioni prese nelle capitali e nel mondo, reagiscono con il nazionalismo. America first, Catalogna «libera», passaporto austriaco agli altoatesini. Questi patrioti sembrano motivati più dal timore di aver perso il controllo sulle proprie vite, che dal fervore nazionale. Ma agli abitanti delle città che guardano lontano, rispondono: state qui.