Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 27 Mercoledì calendario

In morte di Gualtiero Marchesi

È stato Il simbolo di una generazione di chef: è morto a 87 anni Gualtiero Marchesi. Il primo in Italia a ottenere 3 stelle Michelin e poi a rifiutarle. Tra i suoi allievi Berton, Oldani e Cracco. 
Dire addio a Gualtiero Marchesi significa dire addio al Patriarca della cucina ita-liana. Il fondatore. L’uomo che questa cucina, così come è oggi e come la rac-contiamo, l’ha prima im-maginata e poi inventata. Da numero uno che è sempre stato (per fortuna) al di là degli schemi e del-le catalogazioni. Per comprendere il suo peso basta fare l’elenco degli allievi: Andrea Berton, Carlo Cracco, Paolo Lopriore, Ernst Knam, Davide Oldani... E l’elenco di eccellenze potrebbe continuare. Gualtiero Marchesi se ne va via con la soddisfazione abbastan-za unica di aver conquista-to tutto. Ma soprattutto il lusso della libertà: non dipendere dalle guide, dalle mode, dai media. Dai voti. Lui, e solo lui, si è tolto infatti lo sfizio di ri-dare indietro le stelle Michelin. Tanto, chi altro è riuscito a diventare Gualtiero Marchesi? Questa consapevolezza lo ha fatto vivere alla sua maniera, guascona e un po’ scanzonata. Il cuoco («che significa chef?») italiano più noto che ci sia mai stato. Ostinatamente legato al nostro Paese, al punto da rifiutare un’of-ferta di Gianni Agnelli di trasferirsi a Parigi e aprire un ristorante tre stelle. «Mi mancò il coraggio», ha poi confessato sereno. Uno scienziato della cuci-na, così si definiva. Marchesi è stato prima di tutto fiero difensore di Marchesi. Della sua identi-tà. Della sua anima. Che poi è significato un modo unico d’essere. Di vivere. E di concepire la cucina: non come spadellamento ma come azione intellet-tuale. I suoi piatti nasce-vano e si perfezionavano prima nella testa. Solo dopo venivano realizzati. Come opere d’arte: l’insa-lata di spaghetti al caviale. Il riso oro e zafferano. Il raviolo aperto. Eppure, l’unico che restava per lui indimenticabile non è mai stato preparato dalle sue mani: la trippa. La faceva sua moglie Antonietta. Gualtiero ancora provava a capire come replicarla. 

È stato il primo in tutto, Gualtiero Marchesi. Il primo a stravolgere la cucina italiana, portandola a livelli che non aveva mai raggiunto. Il primo a ottenere le tre stelle Michelin nel nostro Paese: era il 1985 e il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva 9, a Milano, stava facendo la storia della gastronomia nazionale con il «raviolo aperto» e il «riso e oro». È stato anche il primo (al mondo) a «rifiutarle»: «Basta voti, d’ora in poi accetterò solo commenti», aveva detto nel 2008, convinto che quello dei punteggi fosse ormai solo un dannoso gioco al rialzo. Molti dopo di lui avrebbero fatto lo stesso. Il Maestro ora se n’è andato, alle 18 di ieri sera, circondato dalla famiglia riunita anche per Natale, a quasi 88 anni (li avrebbe compiuti il 19 marzo), colpito da un tumore e, ancor più profondamente, dalla morte della moglie Antonietta sei mesi fa. 
Ma è stato il primo anche in una delle sue ultime volontà: fondare una casa di riposo per cuochi, come quella che Verdi fondò per i musicisti. Tra mille difficoltà l’instancabile Marchesi era riuscito a trovare un partner per realizzarla (la Fondazione Molina): la struttura aprirà a Varese nel 2018. Lui non la vedrà, ma la sua gioia era stata tanta, lo scorso ottobre, quando aveva annunciato di avercela fatta. 
Il Maestro era una persona concreta, per quanto nei suoi discorsi – e nei suoi piatti – volasse alto. Anzi altissimo, tra citazioni (amava le frasi di Toulouse Lautrec, che annotava in tanti foglietti in giro per casa), studio e amicizie colte: Lucio Fontana era un cliente del ristorante dei suoi genitori, il «Mercato» di via Bezzecca, dove lui ha imparato i rudimenti del mestiere. Piero Manzoni era un amico. E dai musei di tutto il mondo Marchesi portava a casa cravatte con i quadri dei pittori («Ne ho quasi duemila»). Anche per questo è stato il primo a mescolare le discipline, a farsi influenzare per i suoi piatti dall’arte – basti pensare al «dripping» di pesce, una composizione di calamari, vongole e telline pennellati con il nero di seppia per imitare Pollock – e dalla musica, l’altra sua grande passione. Se non avesse fatto lo chef avrebbe suonato il piano: lo ha studiato per tre anni, ma poi la sua insegnante, Antonietta, gli ha detto che era «troppo distratto». Sarebbe diventata sua moglie. Oggi le loro due figlie, Simona e Paola, e anche i nipoti, sono tutti musicisti. 
Si è spento nella sua casa milanese di via Marcona, più votata alla musica che alla cucina, tra violini, violoncelli, arpe. E il piano, naturalmente, dov’è sbocciato l’amore con Antonietta. Sugli scaffali il libro di ricette di Nonna Papera, perché «a voler essere curiosi qualche idea viene fuori anche da lì». 
Se c’è una cosa a cui Gualtiero Marchesi ha sempre ricondotto tutto è proprio la voglia di mettersi in gioco. A diciotto anni, lasciando tecnica industriale per la scuola alberghiera di Lucerna, in Svizzera. Poi a 36 quando, con una moglie e due figlie a carico, decide di chiudere il ristorante di famiglia per andare a studiare. Dai grandi: a Parigi, a Digione, a Roanne dai Troigros. 
Torna e ha in mente una «cucina totale» in cui tutto, dai piatti alle posate, dal servizio alle tovaglie, contribuisca all’esperienza. Apre allora il «Gualtiero Marchesi» in via Bonvesin de la Riva: 50 coperti con una «cucina mai vista», come raccontano i giornali dell’epoca. Cento metri quadrati e vari settori. È il 1977, in due anni avrà già due stelle. I gastronomi Gault e Millau lo segnalano al Time come uno dei 15 ristoratori che preferiscono. Dalle sue cucine passano i talenti di oggi: Enrico Crippa, Carlo Cracco, Andrea Berton, Davide Oldani, Ernst Knam, Paolo Lopriore. «Non ci dava mai vere lezioni, l’esempio era il suo modo di insegnare», raccontano gli allievi. Proprio per allargarlo, nel 2004, fonda Alma, la scuola internazionale di cucina a Colorno (Parma) che oggi è una punta d’eccellenza. E poi la Fondazione Marchesi, per «diffondere la cultura del bello attraverso il gusto». La televisione, anche, nonostante le critiche ai talent gastronomici («Illudono le persone»): negli ultimi due anni il suo Pranzo della domenica è andato in onda su Canale 5. «Ho accettato solo perché in palio, per i concorrenti, c’era un periodo di studio». Pieno di onorificenze – Cavaliere della Repubblica, Ambrogino d’Oro, premiato in Francia dal ministro della Cultura – protagonista di un documentario ( Marchesi: The Great Italian ) presentato a maggio a Cannes, GualtieroMarchesi aveva a cuore soprattutto una cosa: che la cucina non fosse mai basata sull’ignoranza. «Bisogna conoscere, solo dopo si può decidere di cambiare», ripeteva lui. Studiare le regole per poi infrangerle. C’era scritto anche questo, tra i suoi foglietti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Gualtiero Marchesi firmò una copertina de La Lettura, peraltro esattamente due anni fa, il 27 dicembre del 2015. Un piatto con un’ora-ta cotta al vapore, sempli-cissima, simbolo della sua filosofia. Quella sintetiz-zata in una frase, riportata anche in copertina, «La cucina della verità ovvero della forma quindi della materia». Come a ricordare che la cucina ha bisogno di pochi ingredienti essenziali ma pensati e rappresentati con stile. Un po’ come l’arte, la sua amatissima arte. Così apprezzata che molti dei suoi piatti più famosi sono ispirati a opere famose. Il dripping di pesce, per esempio, realizzato come una tavola di Pollock. Il rosso e nero, ovvero coda di rospo al nero di seppia in salsa di gazpacho, coma una tela di Fontana. O la pera al vino rosso con la crema inglese. Un dolce che è un piccolo capolavoro. Proprio come la «Vela» di Velasco.  © RIPRODUZIONE RISERVATA
L o ha chiamato «signor Marchesi» fino all’ultimo. Fino alla scorsa settimana, quando era passato per salutarlo e fargli gli auguri ma non era riuscito a vederlo perché stava riposando. Davide Oldani piange la morte del suo Maestro e condivide il ricordo di quel giorno, nell’84, quando suo padre lo accompagnò ragazzino nel ristorante di via Bonvesin de la Riva: un amico di un amico di famiglia aveva consigliato l’incontro con quello chef emergente e già rinomato. Il ragazzino aveva appena finito la scuola alberghiera e serviva una guida: «Lo tengo io», disse Marchesi a Bruno Oldani.
Aggiungendo, da padre a padre, una frase che a Davide è rimasta scolpita nella testa: «I giovani sono come spugne. Assorbono, assorbono e un giorno rilasceranno». In dieci anni alla scuola di Marchesi, Davide Oldani ha assorbito insegnamenti culinari e di vita, come spiega: «Un maestro ti aiuta anche a diventare uomo ed è quello che mi è accaduto stando vicino a lui». Dieci anni in una cucina dove il primo chef era tedesco e il secondo francese, «perché Marchesi è stato il primo a portare in Italia il gusto della cucina internazionale». Dieci anni e tanti ricordi, come quello di una delle prime carte firmate dal Maestro «che conservo ancora nel mio archivio»: «In quel menù non aveva messo neppure un piatto di pasta o di riso e in Italia poteva suonare come una provocazione».
«In realtà – spiega Oldani – era un modo per valorizzare la nostra italianità rivisitando i gusti imparati in Francia». E poi la grande attenzione alla tecnica: «Trent’anni fa nelle sue cucine usavamo il forno trivalente, l’abbattitore, il sottovuoto. È stato il primo a farlo». Poi, la qualità dei prodotti, «che doveva sempre essere altissima». E l’attenzione ai giovani cuochi: «Se stavi disossando un carrè d’agnello o preparavi una Milanese lui era sempre alle spalle. Ti guardava, ti correggeva, ti insegnava».
Un Maestro generoso con i suoi tanti allievi: «Ci ha mandati tutti nel mondo a studiare e così ci ha resi liberi». La cucina pop di Oldani? «Aveva apprezzato la mia idea ed è stato contento quando con il mio nuovo ristorante ho cercato di fare il salto di qualità. È venuto tre-quattro volte nel mio locale e forse è stato fiero di me perché in fondo a mio padre aveva detto la verità. Quello che avevo assorbito, poi è venuto fuori».