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 2017  dicembre 22 Venerdì calendario

La Mani pulite «extralusso» dei sauditi

Un mese e mezzo agli arresti al Ritz-Carlton di Riad. Lo stesso albergo dove dormì Donald Trump durante la sua visita in Arabia a maggio. I 208 sceicchi detenuti nel cinque stelle superior della capitale saudita rappresentano la vecchia élite politica, economica e religiosa finita nelle purghe del nuovo che avanza: il principe ereditario Mohammed bin Salman, 32 anni, spesso nominato con le sue iniziali, MBS, anima riformatrice del “new deal” arabo a capo della crociata anti-corruzione. Di fatto già nei pieni poteri visto lo stato di salute precario del padre ottuagenario, re Salman, gravemente malato da tempo. Secondo alcune fonti locali la prossima settimana Salman potrebbe ufficializzare il passaggio del trono al figlio. Questione di giorni. Quel che è certo è che l’Arabia Saudita, da sempre considerata l’emblema del conservatorismo e dell’ortodossia in Medio Oriente, sta conoscendo dietro questo scontro di poteri una ventata riformista economica e sociale senza precedenti.
L’assegno da un miliardo
I 208 arrestati del Ritz intanto vengono a patti con il governo. Senza processo. Una sorta di patteggiamento extra giudiziale alla saudita: il principe Mohammed vuole recuperare i soldi della corruzione. Gli arrestati, uno a uno, ammettono implicitamente di aver pagato o ricevuto tangenti, gonfiato i contratti pubblici, di aver estorto o praticato la corruzione danneggiando il regno e le sue finanze. E firmano assegni a sei o a nove cifre per restituire ciò che avrebbero preso illegalmente dalle casse pubbliche, in cambio della libertà. L’assegno più ricco è stato staccato qualche settimana fa dal principe Miteb bin Abdullah, 65 anni, uno degli uomini più potenti del Paese, considerato un rivale di MBS per il trono. Figlio dell’ex re Abdullah, a capo della Guardia nazionale, i “pretoriani” che proteggono la famiglia reale, le moschee sacre di Mecca e Medina, i siti petroliferi più importanti, fino al 4 novembre. Il giorno prima delle purghe agli oppositori lanciate da Salman e da suo figlio MBS. Abdullah ha accettato di pagare un miliardo di dollari al governo saudita pur di lasciare la prigione dorata del Ritz. Era accusato di appropriazione indebita, di aver assunto dipendenti fantasma e di aver concesso contratti pubblici alle sue aziende, tra cui gli appalti per la fornitura delle radiotrasmittenti e dei giubbotti antiproiettile alla polizia.
Il giorno dopo le purghe un altro principe, Mansour bin Muqrin, è morto in un incidente su un elicottero assieme ad altri otto alti ufficiali sauditi. Mansour era il figlio di Muqrin bin Abdulaziz, ex capo dell’intelligence saudita, la Mukhabarat Al A’amah dal 2005 al 2012 e uomo di fiducia dell’ex re Abdullah. In questo giro di giostra anche il ministro dell’Economia e della Programmazione, Adel Fakeih, è stato rimosso dall’incarico e sostituito dal suo vice. Lo stesso destino è toccato al comandante delle forze armate.
Gli sceicchi a patti con il Governo
Il Comitato anti-corruzione ha accelerato i negoziati e i patteggiamenti con gli arrestati per superare l’impasse che sta bloccando il Paese e sta creando non pochi problemi all’economia reale. Alla Borsa saudita Tadawul nei cinque giorni successivi al blitz del 5 novembre ci sono state vendite azionarie per 19 miliardi di dollari. Diversi grandi investitori hanno liquidato posizioni e spostato capitali all’estero. La Capital market autority, la “Consob” saudita, ha congelato le operazioni di trading a tutti gli sceicchi coinvolti nello scandalo. Mentre la Sama, la banca centrale, ha sequestrato oltre 2mila tra asset finanziari e conti bancari, ma non quelli delle società degli arrestati. Società che cercano di continuare ad operare, tra mille difficoltà. Un mese e mezzo dopo gli arresti, ci sono ancora 376 conti bancari individuali bloccati «in via precauzionale». E «159 persone restano ancora detenute» al Ritz, fanno sapere fonti dell’esecutivo.
Il governo, alla fine di una inchiesta durata tre anni, accusa gli arrestati – tra i quali ci sono undici principi, quattro ministri, decine di ex ministri, una trentina di alti esponenti religiosi, uomini d’affari, ma anche attivisti, intellettuali e oppositori – di aver tolto alle casse pubbliche 100 miliardi di dollari che sarebbero serviti per alimentare la «corruzione sistemica» che regna nel Paese dei petrodollari. Cento miliardi è l’equivalente del debito pubblico saudita.
Il principe Mohammed che si schernisce quando gli si chiede qualcosa sulla retata – «era già tutto scritto in Vision 2030», il suo piano di riforme e di diversificazione dal petrolio – punta ora a recuperare una somma compresa tra i 50 e i 100 miliardi di dollari mancanti dai bilanci pubblici. Un’altra trentina di sceicchi, oltre al principe Abdullah, avrebbero raggiunto accordi simili con assegni di importo inferiore, comunque sempre nell’ordine di centinaia di milioni di dollari. L’esecutivo conta di chiudere nelle prossime settimane gli accordi con tutti gli altri. «Il Comitato governativo che sta negoziando con i detenuti – è scritto in una nota – offre degli accordi per facilitare il recupero dei fondi e degli asset statali e per evitare lunghi contenziosi giudiziari. Gli arrestati sono liberi di contattare chi vogliono, così come di rifiutare le offerte di accordo. Chi firma l’accordo e accetta di pagare viene perdonato. Chi rifiuta viene rimandato alla magistratura per ulteriori indagini» e l’inevitabile procedimento giudiziario. Gli arrestati del Ritz possono essere trattenuti in stato di fermo per sei mesi. Ma i magistrati hanno la possibilità di estendere ulteriormente la carcerazione.
Al-Waleed, il «Warren Buffett d’Arabia»
Resta ancora sospesa la posizione del principe Al-Waleed bin Talal, 62 anni, nipote del re, il “Warren Buffett d’Arabia”, presidente della società di investimenti Kingdom Holding di cui ha il 95% del capitale, società che ha partecipazioni in Apple, News Corporation, Twitter, Citigroup, Microsoft. Uomo più ricco del Paese e tra i più facoltosi del pianeta, al 45° posto nella classifica dei paperoni di Forbes, che per un quarto di secolo ha stretto relazioni e fatto investimenti in grandi banche e società di Europa e Stati Uniti: Al-Waleed ha salvato Citigroup dal fallimento nel pieno della crisi subprime nel 2009, ha rifinanziato Eurodisney sull’orlo del crac, ha sostenuto la società di Rupert Murdoch durante lo scandalo delle intercettazioni telefoniche, è partner di Bill Gates nella sua Fondazione. Ha partecipazioni nel Plaza Hotel di New York e nel Savoy di Londra.
Una ragnatela infinita. Ora lamenta di essere stato abbandonato dal mondo occidentale che conta. La sua Kingdom Holding, in seguito all’arresto, sta attraversando un momento davvero delicato: ha perso un quinto del suo valore in Borsa, sceso da 12,5 a 8,5 miliardi di dollari. Il patrimonio personale del tycoon saudita è diminuito di due miliardi di dollari. Talal al Maiman, il ceo di Kingdom Holding, sta cercando 1,3 miliardi di dollari per finanziare gli investimenti già decisi. Ma si vede chiudere le porte da parte di banche e fondi d’investimento proprio in ragione dell’incertezza sul futuro del principe. A settembre, Kingdom Holding aveva completato l’acquisizione dal Crédit Agricole del 16% della banca locale Saudi Fransi (Bsi) per 1,5 miliardi di dollari. Ora sta cercando di coprirsi dall’esposizione, con le azioni Kingdom che nelle ultime due settimane hanno perso il 20% del loro valore. Al-Waleed è in un limbo, rinchiuso nell’hotel a cinque stelle. Finora si è rifiutato di scendere a patti con le autorità saudite. Chiede, senza successo, di poter essere assistito dal suo avvocato per difendersi dalle accuse che gli vengono mosse.
Centrale in questa insolita “Guerra dei Roses” saudita è la figura del principe Mohammed. MBS ha utilizzato le accuse di corruzione per consolidare il suo potere attuale e la sua prossima posizione di sovrano. Con lui negli ultimi tre anni Riad ha adottato una politica più aggressiva contro l’Iran. Ha lanciato la guerra allo Yemen e l’embargo contro il Qatar, accusati di stare dalla parte sbagliata. Riad guida la “guerra fredda” che contrappone il mondo sunnita a quello sciita. Beirut è diventata la Berlino dell’invisibile cortina di ferro musulmana, con gli hezbollah filo-iraniani da un lato, e il premier Saad al-Hariri, alleato dei sauditi, che si è dimesso il 4 novembre (proprio il giorno prima del blitz anti-corruzione a Riad) salvo fare marcia indietro due settimane più tardi.
Tutti i Paesi del Golfo e della Penisola araba hanno aumentato le spese militari in questo contesto di instabilità. Le società occidentali dei settori aerospaziale e della difesa fanno affari. Non passa giorno che non venga annunciato un nuovo contratto per la fornitura di aerei o navi militari (per le armi non si fanno comunicati).
Martedì scorso la difesa aerea saudita ha intercettato e distrutto un missile lanciato dallo Yemen verso la capitale saudita. Secondo il portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani dal 6 dicembre «gli attacchi aerei della coalizione militare guidata dai sauditi hanno ucciso almeno 136 civili e non combattenti» nello Yemen. Tra guerra e arresti eccellenti.
«Al-Waleed – spiega Simon Henderson del Near East Policy Institute di Washington – è finito nella parte sbagliata rispetto alla famiglia reale da quando non ha accettato di promuovere nella comunità finanziaria internazionale gli investimenti verso la cittadella Neom». Il business hub nel Mar Rosso, la città del futuro da 500 miliardi di dollari che i sauditi vogliono creare più grande di Dubai e sulla quale sono riposti i piani riformatori del principe Mohammed. Ayham Kamel, analista di Eurasia Group per il Medio Oriente, non crede che la detenzione di massa farà scappare i grandi investitori: «Questo processo riformista porterà effetti positivi nel lungo termine. Certo, andrà ricreato un modus operandi, considerando che sono stati cancellati tutti i network e le pratiche corruttive che legavano la vecchia dirigenza politica e alle élite finanziarie del paese. Il vecchio sistema è morto».
Le prove da re del principe MBS
La retorica anti corruzione fa presa su milioni di sauditi delle classi medie e sulle giovani generazioni arabe che rappresentano il 70% della popolazione: «Sarebbe un errore – scrivono Andrew Leber e Christopher Carothers di Foreign Affairs – liquidare gli sforzi di pulizia del governo saudita come un teatrino politico o una faccenda tra gruppi di potere». Quel che è certo è che il principe Mohammed in queste settimane ha consolidato enormemente il suo potere. Continua ad annunciare primavere e riforme. Non è più reato per le donne guidare: dal 2018 potranno prendere la patente per auto, moto e perfino per i Tir. A settembre per la prima volta le donne arabe hanno potuto assistere a una partita di calcio accedendo liberamente allo stadio di Riad. Lo scorso 14 novembre, il ministero dell’Industria e del Commercio ha incluso lo yoga nella lista delle attività sportive consentite, disciplina strettamente legata all’induismo: i sauditi possono praticare yoga e anche studiare per diventare istruttori. Il 7 dicembre l’Arabia Saudita ha ospitato il primo concerto di una donna, l’artista libanese Hiba Tawaji che si è esibita a volto scoperto in un auditorium. Dopo 35 anni di divieto religioso MBS ha deciso di riaprire anche i cinema dal 2018: obiettivo, al 2030, è di avere almeno 300 multisala con 2mila schermi: le società occidentali di entertainment Imax e Amc sono già alla finestra. L’erede al trono ha appena varato un piano di aiuti per i cittadini arabi meno abbienti. Un sostegno mensile alle famiglie numerose e ai lavoratori a basso e medio reddito per compensare l’aumento delle tasse, della benzina e il taglio dei sussidi. Il primo assegno è stato spedito il 21 dicembre. La settimana scorsa il governo ha annunciato un piano di investimenti pluriennale da 19 miliardi di dollari per la crescita del settore privato. Tre giorni fa, in ultimo, è stata approvata la manovra finanziaria per il 2018 da 261 miliardi di dollari. Una manovra espansiva che, come ha spiegato il principe, prevede la spesa pubblica più elevata della storia per il suo paese. «Cambiare l’Arabia Saudita in meglio significa aiutare tutta la Regione e anche il Mondo. È quello che stiamo cercando di fare», ha detto.
Il settimanale americano “Time” ha inserito MBS tra i candidati per il titolo di “Persona dell’anno” 2017: il principe ha ricevuto il 24% dei voti.