Corriere della Sera, 24 dicembre 2017
A tavola con Peggy, ancora
«Uno di quei giorni, al ristorante, arriva una signora piuttosto stravagante (anche se, per la verità, a quei tempi erano tutti piuttosto sbandati) con una serie di cani piccoli piccoli. Si avvicina al tavolo e si mette a sedere. Vedo nella sua borsa un pacchetto di sigarette col mio nome. Me lo fa vedere. Dico “sì, sono io”. Ma la conversazione si blocca perché lei parlava inglese, io niente di niente. Arriva Giuseppe Santomaso, avverte l’impasse… Gli dico sai, dice che si chiama Pegghi-non-so-cosa… Gughen… Gughen… “Ah! La Guggenheim!”, dice, “È la famosa collezionista”. “Beh, insomma, siediti…” E da quel momento siamo diventati grandi amici».
Il pittore Emilio Vedova raccontava che andò così, un giorno del 1946, il primo incontro con Peggy Guggenheim e i suoi non meno leggendari cagnolini Terrier Lhasa, amatissimi e contesi in una burrascosa lite giudiziaria col marito Max Ernst e sepolti nel giardino del Palazzo Venier dei Leoni, sede della collezione, dove sarebbero state poi disperse le ceneri dell’«ultima dogaressa». E ricordava che Peggy era già allora impaziente e «voleva esser veneziana, così, subito, e comprare un palazzo. A Venezia. Per la sua collezione. I suoi quadri erano travolgenti. I Pollock, i Picasso, i Max Ernst, i Klee… Potevamo toccare, in qualche modo, la “pelle” di queste immagini».
Anche lei, Peggy, ricordava quel giorno: «Ero al caffè Angelo a Rialto: non conoscendo nessuno a Venezia, domandai al patron dove potevo incontrare qualche artista moderno. Mi rispose “vada all’altro ristorante Angelo, a San Marco, e chieda di Vedova”. Scrissi il nome su una scatola di fiammiferi e mi diressi all’altro Angelo. Qui ricevetti una splendida accoglienza da parte di Vedova e di un altro artista veneziano, Santomaso, che divennero entrambi i miei amici. (…) Siccome fra di loro parlavano in dialetto veneziano, passai ore penose perché non riuscivo a capire nemmeno una parola di quel che dicevano».
Fatto sta che quel ristorante «All’Angelo» della famiglia Carrain in calle Larga, a San Marco, che aveva come primo cliente il grande critico d’arte Giuseppe Marchiori (il quale abitava al piano di sopra) sarebbe diventato il «covo» ospitale e sorridente, di una moltitudine di artisti italiani e internazionali di passaggio a Venezia. Tutti attratti dalla magnetica personalità di Peggy, che in quella trattoria aveva il «suo» tavolo, dall’aria che vi si respirava e dal menù che, non essendo ancora apparsi gli spadellanti divi televisivi, si atteneva ai piatti della tradizione. Quello del 25 ottobre 1950, per dire, offriva tra l’altro la «granzeola condita», la «frittura di cervella alla milanese» o la «testina di vitello» cantata ai tempi da Odoardo Spadaro: «A me piace la testina di vitello/ con l’aceto l’olio е il sal/ col prezzemolo è special!». Dessert: «Ananas al maraschino».
E non c’era praticamente artista che, dopo esser stato preso per la gola, rallegrato dal «bianco Soave alla spina» e immerso nei fumi di leggendarie discussioni sull’arte, non lasciasse ai Carrain un bozzetto, una tavoletta, un quadro. Segno di amicizia e riconoscenza per un dettaglio non secondario: «Nessuno ha mai pagato un conto», ricorda il critico d’arte Enzo Di Martino in un vecchio articolo sulla rivista «Marco Polo», «quando, molti anni più tardi, un artista pagò una cena in contanti, il biglietto di banca (100 lire per la storia) venne messo in cornice». A farla breve: «Non c’era un solo centimetro delle pareti che fosse vuoto. C’erano ovviamente anche altri locali frequentati dai maestri come “La Colomba”, “Da Montin” o “Da Romano” a Murano ma è lì, “All’Angelo”, che nasce il Fronte nuovo delle arti». Cioè uno dei movimenti artistici più vitali del secolo e protagonista della Biennale 1948, la prima dopo la guerra.
Ed è su quelle pareti che vengono affissi via via opere di Achille Perilli e Gastone Novelli, Pietro Consagra e Renato Guttuso, Gino Severini e Mario Sironi, Renato Birolli e Filippo De Pisis, Mino Maccari e Alberto Giacometti e tanti altri ancora. Come Henri Matisse, Pablo Picasso, Léopold Survage…
C’è la pizzeria «Rossopomodoro», da qualche anno, dove c’era quel cenacolo di artisti. Dal «rognoncino di vitello trifolato» alla «pizza quattro formaggi». E tutti quei tesori lasciati dai frequentatori della trattoria All’Angelo hanno rischiato seriamente di venire dispersi in qualche asta internazionale. Un destino scongiurato all’ultimo istante da un appassionato d’arte presidente, per un decennio, dell’Istituto Ville Venete: Luciano Zerbinati. Il quale, saputo che gran parte dei pezzi era finita, come si dice, «nella disponibilità d’una procedura fallimentare», è riuscito a rilevare l’intero pacchetto e a rastrellare parte di quanto già era stato disperso.
Dopodiché ha ricostruito così com’era il tavolo e il salottino di Peggy Guggenheim nel vecchio ristorante e lo ha collocato (per ora) a Ca’ Morosini di Polesella, una stupenda villa sul Po in provincia di Rovigo che ospita parte della sua collezione. Intorno al tavolo e alle pareti, decine di pezzi firmati dagli amici dell’Angelo. Su tutti, spiega Zerbinati, un dipinto strettissimo e lunghissimo di Gastone Novelli (titolo: Allunga il passo amico mio ), il Trittico dell’Angelo di Armando Pizzinato e il Trittico dell’Angelo di Emilio Vedova. Che secondo lui «potrebbe essere considerato la “Guernica italiana” anche se non ha mai trovato l’attenzione dovuta. Vedova lo dipinge nel ‘46 dopo aver aderito al manifesto sulla “Pittura dopo Guernica” e nella forma espressiva del suo gesto a metà strada tra il cubismo e quell’informale espressionista del decennio successivo realizza qualcosa che assolutamente dovrebbe restare nella storia dell’Arte Italiana del XX secolo».
Riuscirà il «salottino Peggy» a trovare tra storia, aneddotica e arte, una sistemazione adeguata? Il progetto pareva lì lì per andare in porto con Philip Rylands, per 38 anni direttore del «Guggenheim Museum» veneziano prima di lasciare il posto pochi mesi fa a Karole Vail. Che di Peggy è la nipote e per certi versi la copia conforme a partire dagli occhi, che Gore Vidal immortalò come «penetranti». Sarà lei a recuperare l’idea di ridar vita a un angolo dell’Angelo? Chissà… E chissà se, nel carnaio di massa del «turismo fried and chips» non verranno recuperate anche le «tagliatelle ragutate»...