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 2017  dicembre 23 Sabato calendario

Pétain, il generale che tradì i francesi

Il 10 maggio 1940 Hitler invase la Francia. In pochi giorni i carri di Guderian arrivarono alla Manica, distruggendo mezzo esercito francese e costringendo quello inglese alla miracolosa evacuazione di Dunkerque. Il 14 giugno entrarono in una Parigi attonita e umiliata. Churchill, da Londra, invitò alla resistenza, ma ormai era tardi. Per ottenere un armistizio almeno sopportabile, se non proprio onorevole, la Francia si rivolse al suo Generale più illustre: il vincitore di Verdun, l’ottantaquattrenne Philippe Pétain. 
Il vecchio maresciallo accettò, forse per ambizione, forse per evitare conseguenze peggiori, e formò un governo di collaborazione che durò fino al 1944, quando George Patton ripeté, all’incontrario, la rapida galoppata della Wehrmacht di quattro anni prima. I tedeschi, ritirandosi, se lo portarono appresso, tenendolo virtualmente prigioniero nella fortezza di Sigmaringen. 
Il nuovo governo di De Gaulle spiccò contro di lui un mandato di arresto per alto tradimento, e Pétain supplicò Hitler di farlo rientrare in Patria per potersi difendere. Hitler non rispose, e poco dopo si suicidò. Pétain, rifugiatosi in Svizzera, volle consegnarsi alla polizia francese. Fu arrestato e rinviato a giudizio per attentato contro la sicurezza interna dello Stato e intelligenza con il nemico.
MATA HARI
Il processo si aprì il 23 luglio 1945 a Parigi davanti all’Alta Corte di Giustizia: i giudici erano ventisette: dodici ex parlamentari, dodici membri della Resistenza, un presidente e due magistrati di carriera: una composizione, come si vede, a dir poco bizzarra. Il Procuratore Generale, Mornet, segaligno sotto tre chili di ermellino e altrettanti di barba caprina, si era già distinto trent’anni prima nel processo contro Mata Hari. Nemmeno lui era vergine: nel 1940 aveva presieduto una Corte per la privazione della cittadinanza degli ebrei. 
L’intero processo, come tanti altri del dopoguerra, aveva poco di giuridico e tutto di politico. La Corte era manifestamente incompetente, perché il Capo dello Stato poteva esser giudicato solo dal Senato. Le imputazioni erano generiche e ambigue: tra queste, l’aver complottato per favorire la sconfitta e instaurare una dittatura. Una tesi ridicola: la battaglia di Francia era stata persa dai suoi generali perché, come disse successivamente uno storico, «erano di una guerra indietro rispetto ai tedeschi». D’altro canto il vecchio Maresciallo aveva dimostrato, nella collaborazione impostagli dalla sconfitta militare, quantomeno un certo entusiasmo. 
LA GESTAPO
La sua colpa non era infatti l’aver stipulato un inevitabile armistizio, ma l’aver assecondato, e talvolta anticipato, alcune odiose iniziative dell’occupante: la creazione di una milizia becera e sanguinaria, l’invio in Germania di milioni di lavoratori francesi, la consegna alla Gestapo di molti rifugiati politici, via via fino alle due scelleratezze più ripugnanti: la lotta senza quartiere ai partigiani, e le leggi razziali con relative deportazioni. Le varie retate di migliaia di ebrei spediti prima a Drancy e di qui ad Auschwitz, erano state pianificate ed eseguite interamente dalla polizia parigina. Ma di questo orrore nessuno parlò al processo, come a Norimberga non si sarebbe parlato del massacro di Kathyn.La grande rafle du Vel d’Hiv, cioè la più importante deportazione del luglio del 42, quando migliaia di donne e bambini furono ammassati nel velodromo d’Inverno sotto l’occhio vigile dei gendarmi francesi non fu nemmeno inserita nell’atto di accusa. Come da noi, la selezione dei crimini da giudicare fu condizionata dall’opportunità e sostenuta dal silenzio.
L’imputato si rifiutò di rispondere alle accuse, limitandosi a contestare la giurisdizione della Corte e ad affidarsi al giudizio della Storia. «Dopo la vittoria del 18 – disse orgoglioso – non desideravo né domandavo nulla. Sono stato l’erede di una catastrofe di cui non ero l’autore, la Francia mi ha chiesto di venire, e io sono venuto». E in questo aveva perfettamente ragione. Poi il vecchio leone si tolse qualche spina dalla zampa ferita. «Mi si imputa – proseguì – di aver costituito un governo illegittimo. Ebbene, quel governo era stato riconosciuto da quasi tutti i paesi del mondo, compresi il Vaticano e l’Unione Sovietica». 
I giurati comunisti mormorarono indispettiti, ma altri annuirono, sogghignando. Qualcuno ricordò che l’Humanité, giornale comunista messo fuorilegge da Daladier nel 39, aveva rispettosamente chiesto proprio a Pétain di riprendere le pubblicazioni dopo l’occupazione tedesca.
Davanti alla Corte sfilarono i protagonisti di quegli anni tempestosi: Daladier, Reynaud, Weygand, cioè i politici e i militari che avevano condotto la Francia alla disfatta. Alla fine il procuratore Mornet pronunciò la requisitoria. Piccolo, scheletrico, bisbetico – così si espresse un cronista – volteggiava come un uccello da preda sul caos del processo. Sbracciandosi, esagitato e scomposto, chiese la pena capitale. L’imputato assistette sempre impassibile, con un vago sorriso di compatimento: quei magistrati gli avevano tutti giurato fedeltà quattro anni prima. 
IL VOLTAGABBANA
Il verdetto giunsero in modo controverso: la condanna a morte fu decisa con un solo voto di maggioranza. Destino volle che fosse il voto di Louis Prot, che prima della guerra era stato condannato a cinque anni di prigione come attivista comunista: il suo partito era stato messo fuorilegge dopo il patto tra Hitler e Stalin per spartirsi la Polonia, e la democratica Francia lo considerava una quinta colonna di potenziali traditori. E, infatti, i comunisti – fino all’aggressione dell’ URSS nell’estate del 41 – sostennero lealmente Pétain, alleato di Hitler, alleato di Stalin. L’imputato sorrise ancora per la faccia tosta di questo voltagabbana.
Il Presidente e i colleghi togati erano dissenzienti, e si rifiutarono di stendere la motivazione, che fu redatta da un giudice popolare. Rileggerla oggi suscita quasi orrore per la sua inconsistenza tecnica e giuridica. Fu tuttavia trovato un compromesso: la raccomandazione che la pena non fosse eseguita. In realtà non ce n’era bisogno. Il Generale De Gaulle, presidente provvisorio, non intendeva far fucilare un maresciallo di Francia come traditore. Commutò la pena in carcere a vita, e Philippe Pétain, già malato, morì pochi anni dopo.
IL POTERE
Il suo processo fu una via di mezzo tra le assise di Norimberga e l’esecuzione di Mussolini. Come a Norimberga si volle seguire una procedura formale, con tutte le contraddizioni che una simile scelta comportava: una Corte incompetente, dei giudici prevenuti, e un’atmosfera non propriamente serena. Come per Mussolini, si volle chiudere in fretta un capitolo che, una volta aperto, avrebbe coinvolto mezza nazione. I francesi, come gli italiani, avevano a lungo sostenuto, e persino amato, i loro condottieri, sepolti dalle macerie della guerra più che dal peso delle loro colpe politiche. Ma Pétain non era il Duce: non aveva assunto il potere con un colpo di mano, non aveva dichiarato una guerra rovinosa, né aveva cercato di scappare sotto un pastrano straniero; al contrario, era tornato spontaneamente in Patria per non sembrare un vigliacco. Gli storici più recenti ne hanno attenuato sia la gloria di combattente sia le responsabilità di collaborazionista, anche se la Francia è ancora divisa sulla sua persona. Come scrisse Francois Mauriac, resterà una figura tragica eternamente errante, a mezza strada tra il tradimento e il sacrificio.