Libero, 24 dicembre 2017
Nelle carceri italiane i secondini stanno peggio degli ergastolani
«Garantire la speranza è il nostro compito» è il motto della polizia penitenziaria. Una speranza che spesso risulta assente nelle carceri italiane e nei cuori di chi ci vive sia come detenuto che come agente. Dal 2011 ad oggi 48 appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, uno dei quattro corpi di polizia dello Stato italiano, si sono tolti la vita, una media di 8 suicidi ogni 12 mesi. L’ultimo tragico episodio risale al 9 dicembre, quando un assistente capo di 51 anni verso le 3 di notte si è ucciso con l’arma di ordinanza nella portineria del carcere di Tolmezzo, Udine. Quindici giorni prima un altro agente si era ammazzato a Padova, afflitto anche lui da quella sorta di male di vivere che come un virus infetta e non di rado stronca coloro che respirano l’aria asfittica delle galere. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri italiane, più di 19 mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze.
Ma – parafrasando la celebre locuzione latina tratta da una satira di Giovenale – “quis custodiet ipsos custodes?”, ossia “chi sorveglierà i sorveglianti stessi?”. Nessuno sembra curarsi di loro e la lista dei morti si allunga di mese in mese, come fosse un bollettino di guerra. Gli istituti penitenziari italiani sono grandi calderoni in cui individui che hanno compiuto reati di varia natura, che hanno culture e nazionalità diverse, problematiche diversificate di salute sia fisica che mentale, che sono in attesa di giudizio o già stati condannati in via definitiva, si trovano costretti nello spazio angusto di una cella in cui manca tutto, dall’acqua calda a materassi adeguati. Più che luoghi di rieducazione sembrano luoghi di tortura, in cui la sofferenza è ineludibile e dove la scelta della devianza non viene abbandonata, bensì consolidata. Queste condizioni vengono patite anche dai poliziotti che vivono e lavorano negli istituti di pena. Essi, quando decidono di togliersi la vita, muoiono di carcere. Si tratta di morti bianche.
IL REGIME APERTO «La situazione nelle carceri è e resta allarmante e drammatica», esordisce Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE). Negli ultimi venticinque anni, dopo l’introduzione della legge n. 395/1990, che ha sciolto il corpo degli agenti di custodia istituendo quello di polizia penitenziaria, i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie si è trasformato, dal momento che a queste ultime sono stati affidati nuovi compiti istituzionali e nuove responsabilità, come il servizio di pubblico soccorso e la partecipazione al trattamento rieducativo del reo. L’agente è sia guardiano preposto al mantenimento dell’ordine e della sicurezza che, in un certo senso, educatore, o confidente, che si fa carico del detenuto persino dal punto di vista morale ed emotivo, pur non avendone gli strumenti, cosa che comporta un fortissimo stress. Secondo Capece, il cosiddetto «regime aperto», che è stato applicato di recente e che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori dalla cella, avrebbe peggiorato la situazione interna delle carceri, diventata ormai implosiva.
LA MOSSA SBAGLIATA «Esautorando il poliziotto penitenziario da quella che è la sua funzione principale, ossia il mantenimento dell’ordine, lo Stato ha affidato la sicurezza ai detenuti stessi. Il passaggio dalla vigilanza dinamica a quella statica mediante l’apertura delle celle ha ingenerato confusione, tanto che nello stesso carcere vengono compiuti reati non più perseguiti, come furti, sopraffazioni, violenze. Prima il poliziotto fungeva da deterrente. Lasciare le celle aperte ovunque vuol dire consentire lo stato brado, dato che gli agenti non sono presenti in sezione ed i detenuti si autogestiscono», continua Capece. Insomma, l’agente penitenziario sarebbe stato privato della autorità di cui godeva, requisito fondamentale per poter svolgere il suo lavoro ed essere rispettato dai detenuti. Tutto questo, secondo il segretario generale del SAPPE, ha determinato persino l’aumento delle evasioni. «Durante l’assenza del poliziotto i detenuti si danno da fare per tentare la fuga. L’applicazione della direttiva europea sulle celle aperte, la quale avrebbe dovuto dare maggiore spazio fisico ai carcerati, in Italia ha creato il caos, dal momento che i detenuti gironzolano nei corridoi senza fare un bel niente. E si sa quali e quanti danni può generare la noia», continua Capece. Ma il danno più grave provocato dalla recente riforma dell’ordinamento penitenziario è – a giudizio di Capece – l’avere stabilito un compenso di 1500 euro per il detenuto che lavora 6 ore al giorno, quando le guardie prendono stipendi di 1300/1400 euro al mese per svolgere il loro compito gravoso. «È inevitabile che gli agenti, che per lavorare rischiano la vita, si sentano maltrattati e non riconosciuti da uno Stato matrigno. Questo determina un sentimento di rabbia. Il personale è sfiduciato e stanco. Ripristinare la chiusura delle celle è un intervento da realizzare con urgenza», dichiara Capece. Il ritorno ad un regime chiuso, però, non solo sarebbe contro la legge, ma costituirebbe una sconfitta per lo Stato. «Il sistema a celle aperte, che consente ai detenuti di trascorrere 8 ore al giorno fuori dalle proprie camere di pernottamento è fondamentale nel trattamento rieducativo, a condizione che i condannati siano impegnati in attività lavorative, o culturali, o di manutenzione dei fabbricati del carcere stesso, affinché essi non restino inattivi. La passivizzazione fuori dalle celle non giova a nessuno, bisogna che vengano realizzate attività utili», dichiara Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria. La soluzione ideale, atta a migliorare la situazione all’interno degli istituti di pena, quindi, non dovrebbe mettere in pericolo i diritti dei detenuti, costringendoli a permanere 24 ore su 24 in tre metri quadrati disponibili in cella.
IL CAMBIAMENTO «Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci ascolta, ma sembra incapace di provvedere alle riforme strutturali. Noi stiamo urlando aiuto. Gli agenti si uccidono perché lo stress è altissimo, molti sono strappati dalle terre native senza prospettive di un ricongiungimento familiare. Ci vuole una politica diversa per il carcere che va rivisto totalmente», afferma il segretario del SAPPE. È il sovraffollamento uno dei principali fattori che rendono insopportabile la vita negli istituti carcerari. Nonostante nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia condannato l’Italia per tortura e trattamento inumano a causa di tale problematica, nulla è cambiato in questi anni e ad oggi risulta che i detenuti in eccesso nelle nostre carceri sarebbero 10,320 (18,15% del totale) e quelli coinvolti nel sovraffollamento 46,336 (81.49% del totale dei detenuti presenti), mentre gli istituti penitenziari in sovraffollamento sarebbero 131 su 194 (67,88% del totale). «In carcere devono starci coloro che hanno compiuto reati gravi e che potrebbero rappresentare un pericolo per la società. Per i reati minori dovrebbero essere applicate le misure alternative. Già questo contribuirebbe a risolvere il sovraffollamento che rende il carcere un inferno», suggerisce Capece. «Il sovraffollamento incide in modo negativo sia sul trattamento rieducativo, che non può essere individualizzato a causa del gran numero di condannati presenti, che sulla sicurezza dell’istituto. Dovrebbe esserci un’equa proporzione tra detenuti ed agenti. Purtroppo, il personale è spesso insufficiente», specifica Siviglia.