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 2017  dicembre 24 Domenica calendario

Veronica Bocelli: «Con me Andrea ha rischiato vent’anni di carriera»

Veronica Bocelli è a Washington. Con il marito Andrea, soggiorna in una villa privata per il National Prayer Breakfast, un evento che riunisce uomini del congresso, senatori e presidenti per momenti privati e di preghiera. Sono nel bel mezzo di un tour negli Stati Uniti, dove anche nell’angolo più remoto del Midwest basta pronunciare il nome Bocelli per veder scintillare gli occhi dell’interlocutore. Lui è uno degli artisti italiani più famosi in America, gode di seguito e credibilità tali che da quelle parti si concentra il 90% dei benefattori della sua Fondazione filantropica. La Andrea Bocelli Foundation raccoglie fondi (5 milioni nel 2016) a sostegno di progetti per le fasce più deboli della popolazione. Sulla carta, Veronica ne è vice presidente. Nella realtà, molto di più. È lei che alza il telefono e chiama Sharon Stone, George Clooney, Elton John, David Foster, Jo Champa, Reba McEntire, Tony Bennet, per citare solo alcuni degli invitati speciali agli eventi benefici pro-Fondazione. Il risultato sono di solito concerti da mille e una notte. Fra gli ultimi, la serata di fine estate al Colosseo.
È la stratega degli ultimi 15 anni di carriera del marito. Si conobbero che aveva poco più di vent’anni, era una studentessa universitaria. L’incontro fu a una festa, a Ferrara. «Andrea non voleva andarci perché non è un tipo mondano, era finito lì controvoglia. Io mi ci ero ritrovata per caso, con degli amici». La vita dei due cambiò in un baleno. E Veronica si ritrovò non solo a fianco di un artista, ma anche, di fatto, al timone di un’azienda di successo. Un’azienda solida, anzi in crescita, ma allo stesso tempo fragile, fondata, com’è, su due corde vocali e sul più puro capitale umano. 
Il successo di suo marito ne ha fatto un brand milionario che è affidato a lei. Le capita di vivere momenti d’ansia per la responsabilità?
«Nel 2005, in una fase di avvicendamento del management, Andrea mi disse: da domani te ne occupi tu. Io? Come si fa a mettere vent’anni di carriera nelle mani di una che non ha le competenze necessarie? Mi ci ritrovai dal giorno alla notte. All’inizio fu dura, perdevo i capelli dallo stress. Poi capii una regola chiave. Non bisogna fare gli accentratori, ma comportarsi come farebbe un direttore d’orchestra. Affidarsi alle competenze e alle qualità di ogni singolo orchestrale, non conta se non si sa suonare tutti gli strumenti. Conta però che tu sappia armonizzare le diverse sonorità».
Resta il fatto che non è facile essere la manager del proprio marito.
«La responsabilità raddoppia. C’è anche l’impatto emotivo. Per un artista sarebbe ideale aver accanto una moglie spensierata, che possa smorzare i nervosismi che la vita d’artista comporta. Ma non posso permettermelo».
In aggiunta è pure mamma
«Parto da questo concetto. Se fai tante cose, non ne fai una giusta. O almeno non al cento per cento delle tue possibilità. Devi poterti concentrare su ciò che più conta. Non puoi dire che fai la mamma se lasci tuo figlio tutto il giorno con la tata. Io cerco di trovare un equilibrio e a fine giornata mi chiedo se ho vissuto in modo intelligente, e non è facile rispondere, fare un bilancio sincero. In questi ultimi due anni ho cercato di darmi delle priorità, scegliendole nel modo più logico possibile. Cosa non sempre realizzabile. Perché pianificare una situazione è una cosa, ma viverla da dentro è un’altra».
Nessuna tata, dunque, per vostra figlia?
«Ho la fortuna di poter contare su mia mamma, viaggia sempre con noi e mi aiuta con la bimba. Abbiamo una tata americana che a casa gioca con Virginia in inglese. Per il resto, in Fondazione lavora gente davvero molto in gamba. A partire dal Presidente e dalla direttrice, una preziosa amica di vecchia data di Andrea. E oggi spero con orgoglio di poter dire anche mia».
Oltre alla mamma c’è anche un papà cantante...
«Già, un fisico-matematico con la passione per il canto, un baritono. Andrea dice che è un talento sprecato per stare in regia video. Perché è di questo che si occupa in tour con noi».
E quando guarda indietro che cosa succede? Alla stessa domanda suo marito rispose che si sentiva parte di una fiaba.
«La prima cosa che mi viene da pensare è che siamo nati sul lato fortunato del mondo: non dobbiamo scordarcelo. E se il tuo principe azzurro sente di vivere una favola, è inevitabile che anche tu condivida questa sensazione. Mio marito è nato in un piccolo centro di campagna, un paesino di 1880 anime, è la determinazione fatta persona. È partito da Lajatico con qualche difficoltà in più rispetto agli altri, e se vedo dove è arrivato, non posso non sentirmi anch’io parte di una fiaba».
A New York, l’11 dicembre, Andrea Bocelli ha suonato la campanella di apertura al Nasdaq, aprendo la giornata borsistica. In 60 secondi ha ricordato che cosa fa la vostra Fondazione. Nel frattempo sui mega schermi di Times Square venivano mostrate le immagini della vostra attività...
«E i numeri. Per ricordare che abbiamo coinvolto 2.550 bambini in attività educative, sono state costruite cinque scuole ad Haiti. Sono 4220 le famiglie che beneficiano di interventi in cinque comunità e 80.489 le persone assistite». 
Ha preparato lei il discorso di suo marito? È lei il ghostwriter? 
«Capita che ci impegniamo a preparare discorsi che Andrea puntualmente neanche legge.... Parla d’istinto. Ed è ciò che più ammiro».
Così ogni intervento diventa una sorpresa.
«Compreso quello al National Prayer Breakfast, come sempre presieduto dal Presidente degli Stati Uniti. Andrea è stato invitato due volte. Aveva accettato l’invito a patto di cantare, si sente più a proprio agio con la musica che con i discorsi. E così è stato. Ha cantato. Poi cosa è successo? Ha finito l’aria, se ne è andato, e dopo qualche secondo è ritornato e ha ripreso il microfono. Mi è passata la vita davanti. Contro ogni protocollo... Senza interprete. Per la verità quello è stato anche l’unico intervento accolto con una standing ovation». 
Non ama seguire copioni 
«In inglese non si sente a suo agio, si sente frustrato, dice che a causa dello scoglio della lingua non riesce ad esprimersi come vorrebbe. In realtà si esprime correttamente, a volte meglio di me, anche se io non mi pongo i suoi problemi. Forse, non avendo la sua proprietà di linguaggio, non sono così esigente».
Gli Usa sono una vostra seconda patria. Lì avete simpatizzanti e munifici donors per la vostra Fondazione.
«Effettivamente il 90% dei nostri donors sono americani. E mi piace sottolineare che ai nostri occhi sono preziosissime le piccole somme, piccole ma costanti. Hanno poi un valore inestimabile le decine di euro raccolte nelle scuole, e accompagnate da letterine commoventi. I 10 euro di una classe di bambini hanno un significato che non si può commentare. Quanto agli italiani vorrei menzionare in particolare la famiglia di Renzo e Arianna Rosso, con la fondazione Only the brave siamo partner per costruire una scuola media a Sarnano». 
E degli americani cosa pensa?
«Mi piace il fatto che non si adagiano mai, non pensano allo Stato come a un genitore che tutto dà, e dal quale bisogna aspettarsi sempre qualcosa. Amo la loro libertà di pensiero ed espressione. Non hanno il timore di provare e mostrare entusiasmo». 
Suo marito è nervoso nei giorni dei concerti?
«Non particolarmente. È stato nervoso per tanti anni, fino a quando la voce non ha trovato la sua giusta via. Un problema risolto anche grazie a un maestro di 90 anni. La nuova tecnica gli sta dando serenità...»
A casa seguite dei rituali porta-fortuna?
«Cerchiamo solo di condurre una vita più sana possibile. Non abbiamo nessun rito scaramantico. Alla vigilia Andrea va a letto prestissimo, mangia riso in bianco, evita luoghi dove vi sia confusione e qualcuno gli possa attaccare anche solo un banale raffreddore». 
E appena prima di metter piede in palcoscenico?
«La preparazione di Andrea dura dai quattro ai cinque minuti. Si infila lo smoking e via. Se non lo rincorressi mettendogli acqua fra i capelli per domarli un poco, andrebbe in palcoscenico così. Si concentra per ore sulla preparazione vocale, il vero focus è quello».
La macchina organizzativa dei grandi eventi è straordinariamente complessa. 
«Prendiamo il concerto al Colosseo: è stato preceduto da 18 mesi di lavoro quotidiano. Non c’è stato un solo giorno in cui non abbia lavorato al progetto. E la cosa buffa, o da incoscienti, è che nemmeno per un istante ho temuto che avrebbe potuto piovere». 
E se fosse accaduto? Aveva un piano B?
«Per un concerto al Colosseo non può esserci un piano B. Diciamo che il Signore ha guardato giù. Ed è andato tutto bene. Ma il peso della responsabilità l’ho sentito. Perché se chiedi a Elton John, per citare uno degli invitati, di venire a Roma per un tuo evento, e lui ti offre il suo tempo e le sue energie, tu devi essere impeccabile. Persone come lui ti fanno un favore perché credono in te, hanno fiducia, però tu devi fare il massimo per rendere sicuro il risultato». 
Appunto, responsabilità e tensione... 
«Compensata poi dai risultati. Anzi, proprio l’altro giorno Andrea ha ascoltato casualmente il Nessun dorma cantato in quella occasione. E lui che è sempre ipercritico con se stesso e non vuole mai sentirsi, si è piaciuto. Ha detto, bello!. Non mi sembrava vero». 
È lei o suo marito a fare la prima mossa contattando le celebrità?
«Io, perché Andrea, contrariamente al maestro Pavarotti, per fare un esempio, si fa problemi perfino a telefonare. È molto riservato. Entrambi siamo nati in campagna, in piccoli paesini, alle volte penso che viviamo un po’ la sindrome del provinciale che fatica ad osare.
Quanto ama la mondanità?
«Andrea ed io non siamo propriamente social. Nel senso che la confusione non è il nostro mondo. Amiamo la gente, ma a piccole dosi. Quando siamo fuori, ci piace stare a cena con non più di cinque persone, così da poterci concentrare su di esse, conversando senza dover ricorrere ai soliti discorsi preconfezionati. Cene e pranzi per grandi tavolate li facciamo in casa. A pranzo siamo sempre intorno alle 20 persone, e a cena 12».
Ma chi invitate? 
«Ci sono tutti i ragazzi dell’ufficio. Lo dico sempre: la nostra più che una famiglia, è una laboriosa e felice comunità».
Che ne è del progetto di recupero di Sant’Orsola a Firenze? 
È un’operazione a cui ha partecipato il fratello di Andrea, architetto. È nata una cordata di imprenditori e anche la famiglia ha accettato di farne parte. Del resto, il progetto è bellissimo, l’area è fantastica. Però in questo momento tutto ha subito una battuta d’arresto: purtroppo due persone coinvolte nella cordata hanno problemi con la legge, quindi noi abbiamo preso le distanze. Finché non si fa chiarezza, è tutto sospeso. Investiamo volentieri il nostro tempo ed energie, ma devono esserci le premesse giuste».
Nel repertorio di suo marito qual è l’aria che ama di più?
«Quella che mi fa provare brividi è Nessun Dorma. Quando Andrea la canta sul palco è uno dei pochi momenti in cui non lo guardo, ma mi concentro sul pubblico. Osservo cosa fa la gente, come reagisce: ed è sempre emozionante. Mi piace l’idea di vivere le emozioni di chi ama mio marito. Non ci si deve mai abituare alle emozioni. A dir la verità però l’aria del cuore è Occhi di fata: me la dedicò al nostro primo incontro e mi tocca sempre profondamente».