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 2017  dicembre 23 Sabato calendario

La roccaforte dei catalani. «Noi non ci arrendiamo»

«Visto chi siamo noi catalani? Non ci siamo arresi, non ci arrenderemo mai. Abbiamo vinto le elezioni, ora Rajoy dovrà trattare, l’Europa dovrà ascoltarci, e in ogni caso continueremo a combattere per la libertà della Catalogna».
«U seremo ogni arma pacifica: la lingua, la cultura, l’orgoglio. E i soldi delle nostre tasse». 
Joan Rabasseda è il sindaco di Arenys de Munt: il villaggio di Asterix dei catalanisti, il paese simbolo dell’indipendenza; il posto dove capire come si diventa secessionisti, e come lo si rimane nonostante gli errori propri e altrui, il velleitarismo e le manganellate. Tutto cominciò nel 2006, quando qui si tenne un referendum per decidere cosa fare nel letto della «Riera», la fiumana che passava tra le case ed era stata deviata in un apposito tubo. I 7 mila abitanti furono coinvolti in una serie di idee, progetti, opere. Si infervorarono, discussero, si divertirono. E alla fine si dissero: «Perché non ne facciamo un altro, di referendum?». Su cosa? «Sull’indipendenza della Catalogna, cos’altro se no?».
La prima consultazione separatista si tenne il 13 settembre 2009: 96% di sì. «Vennero i falangisti, insomma i fascisti col cranio rasato, per intimidirci: non ci riuscirono» racconta Rabasseda. Il governo di Zapatero vietò di accogliere le urne in municipio: le portarono in parrocchia. I giornali fecero un trafiletto, quasi nessuno se ne accorse. Fino a quando Joan Laporta, il presidente del Barcellona che aveva appena vinto la prima Champions dell’era Messi, se ne uscì con un elogio a sorpresa: «Anch’io sarei andato a votare, Arenys ha svegliato la Catalogna». Subito partì il contagio.
Il secondo villaggio fu Sant Jaume de Frontanyá: 18 voti per l’indipendenza, uno solo contro. Il 12 dicembre 2009 fu indetto un referendum in 167 comuni (l’elettore che aveva votato contro a Sant Jaume nel frattempo aveva cambiato idea: 21 votanti, 21 sì). Ad Arenys arrivarono osservatori da Scozia, Irlanda, Galles, Belgio, Corsica, Québec e pure Trentino, Friuli, Sardegna, Val d’Aosta. Seguirono il referendum consultivo del 2014, e infine quello insanguinato del primo ottobre scorso. «Qui da noi la Guardia Civil non osò farsi vedere: ci basta e avanza la nostra polizia municipale. E ai seggi andarono più cittadini di quanti elessero me» sorride il sindaco. Che è sotto processo per abuso di potere: «Sono disposto ad andare in carcere per le mie idee; ma nelle stesse condizioni ci sono altri 700 sindaci su 947. Non possono arrestarci tutti e aprire un supercarcere per gli eletti dal popolo».
Arenys de Munt è una sorta di Marina di Sopra, il paese immaginario di Qualunquemente, il film di Albanese. Il mare è a un chilometro, però il nome evoca comunità montane, assistenzialismo, denaro pubblico. «Ma quando mai!» si infervora Rabasseda, che non può permettersi il ciuffo di Cetto Laqualunque – o di Puigdemont —, essendo calvo. «Ogni catalano riceve da Madrid 2.500 euro a testa in meno di quanto ha versato. Per questo ho proposto di versare le imposte direttamente all’Agenzia tributaria catalana. Purtroppo anche al governo di Barcellona è sembrato troppo».
Il paese è pavesato di Senyeras, le bandiere catalane, ed Esteladas, i vessilli indipendentisti con la stella cubana. Ovunque scritte inneggiano alla libertà. Sull’argine del fiume hanno dipinto un murale definitivo: «Contro il fascismo vota la Repubblica». Casette di pietra. Foto di castelli umani. Sul municipio una targa ricorda che Arenys è la capitale della sardana, la danza etnica da ballare in cerchio tenendosi per mano, come nelle tele di Matisse. Abolite invece le corride, non per animalismo ma per dispetto a Madrid: l’arena più antica di Spagna è a Olot, 60 chilometri a Nord. Siamo nella Catalogna profonda, che guarda alla frontiera francese, estranea alla «cintura rossa» degli operai di origine andalusa o estremegna ostili alla secessione, lontana da Barcellona che qui è vista con diffidenza: città meticcia, di anarchici inaffidabili, immigrati refrattari, turisti svagati. Qui se fai una domanda in spagnolo ti rispondono in catalano: tutti tranne Julián, ex minatore nelle miniere di mercurio di Almaden, nella Mancha, la regione povera da dove vennero don Chisciotte e don Andrés Iniesta il calciatore. Spiega Julián che il catalano è la lingua d’accesso alla borghesia, quindi alla rispettabilità sociale, e anche chi viene da fuori è indotto a impararla per un senso di inferiorità, o anche solo per non sentirsi escluso. Ma tra i fautori dell’indipendenza ci sono anche i contadini: ecco la Estelada sulla sede del Sindicato de Obreros del Campo. Il sindaco è di Esquerra Republicana, il partito che fu del presidente fucilato Lluís Companys, venne abolito da Franco e resuscitato da Josep Carod-Rovira, pasionario che si vantava di non aver mai parlato spagnolo in pubblico in vita sua. Ora il capo, Oriol Junqueras, è in carcere alla periferia dell’odiata Madrid, «prigioniero di Rajoy», qui odiatissimo come Inés Arrimadas di Ciudadanos, «l’andalusa», il suo mentore Mario Vargas Llosa e «il francese», l’ex premier Manuel Valls, che si è portato nella nativa Catalogna per far campagna contro la secessione: «Badasse agli affari suoi!».
Spiega il sindaco che a far precipitare la crisi sono state le difficoltà economiche: «Siamo stanchi di lavorare e pagare per il resto della Spagna. Fino a quando le cose andavano bene, abbiamo taciuto. Ma ora se vogliamo salvare il nostro benessere e la nostra cultura, il lavoro di generazioni, il patrimonio che ci hanno lasciato i nostri vecchi, dobbiamo ribellarci. È il nostro ideale, ed è il nostro interesse. Con noi ci sono baschi e fiamminghi, scozzesi e bavaresi, sardi e veneti. L’Europa è fatta di piccole patrie, di piccoli paesi come questo. La Spagna pensava di averci riconquistato con la forza; si sbagliava. Hanno una mentalità imperiale, coloniale, autoritaria. Non capiranno mai la Catalogna».