La Stampa, 22 dicembre 2017
Le sequoie e lo Statuto albertino
Nel lungo autunno passato senza pioggia gli alberi hanno manifestato una spoliazione articolata, soltanto l’anno passato c’era chi proponeva l’idea di un autunno liquido, instabile, precipitoso, fuori sincrono, un prestito dalla weltanschauung del sociologo polacco Zygmunt Bauman.
Certo, i terribili incendi di settembre e inizio ottobre, ne hanno mangiati non pochi ettari. Ma per fortuna quel terzo del paese che ne è ricoperto ne ospita ancora molta parte. Una mattina volevo tornare a visitare alcune delle nostre più belle sequoie d’Italia, in quella terra che ne è concentrazione, ossia il biellese, la nostra inconsapevole California. Sono tornato a rivedere la più larga sequoia costale che cresce alle porte di Biella, e poi su, sui colli oltre la città, nell’adiacente Pollone, dove si incontrano le cinque sorelle del Bric Burcina. Tutte appartenenti alla specie Sequoia sempervirens, importata in Europa nel 1840.
Fra le più annose, stando alla documentazione oggi a disposizione, sono state le sequoie del Burcina, messe a dimora nel 1848 per celebrare la promulgazione dello Statuto Albertino, mentre altre sono state piantate fra 1845 e i primissimi anni della decade successiva, di certo la solitaria dell’Arboreto Siemoni in Casentino, di sicuro le coetanee di Villa Serra a Comago, in Liguria, certamente le sequoie che risalgono i viali di frazione Leccio al Castello di Sanmezzano, in Reggello, Toscana.
Delle tante sequoie che ho documentato nelle regioni del Nord-Est si tratta di appartenenti all’altra specie, la Sequoiadendron giganteum.
Arrivato a Biella mi faccio guidare nella zona a Nord-Ovest, fino alla frazione di Chiavazza dove imbocca strada del Bottegone che un tempo accompagnava all’abitato del villaggio di Ronco. Qui la ritrovo, la sequoia-monaco cresciuta a lato della strada a pochi passi dal Monastero Mater Carmeli, la sua corteccia è accesa dalla luce di questa giornata perfetta. Si esibisce in un carnevale di rossi. La dimensione del tronco non la ricordavo così vasta, con pennellate di verde smeraldo.
Ancora più inebriante l’incanto che mi conquista sdraiandomi a terra, fra i cinque piedi delle sorelle che si specchiano nel laghetto del Burcina. Cortecce più scure, intrise d’ombra, e quel concerto architettonico proiettato che sale, si solleva e resta sospeso. Lì, in quell’accenno di foresta antica, ascolto l’ultimo canto dell’autunno. I venti freddi stanno fermentando.