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 2017  dicembre 22 Venerdì calendario

Da dove vengono i derivati dello Stato

Tra le obiezioni della Corte dei conti che hanno portato a contestare un danno erariale da 3,9 miliardi a Morgan Stanley e ai vertici del Tesoro c’è la mancata impugnazione dei contratti con la clausola di chiusura anticipata (early terminaton) da parte dell’Economia. Ma questa scelta, nel periodo clou della crisi del debito tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, avrebbe avuto «conseguenze devastanti». Avrebbe messo il nostro Paese, che doveva già affrontare uno spread di oltre 500 punti, in situazione di pre-default. 
Lo ha affermato ieri in Commissione d’inchiesta l’ex ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, a cui la magistratura contesta una piccola fetta (19,9 milioni) del presunto danno. Poggiando su un ventaglio ampio di argomenti tecnici, Grilli (oggi presidente di JP Morgan per l’Europa e l’Africa) ha sostenuto che la chiusura anticipata ha evitato al Tesoro di sostenere un flusso di pagamenti sempre più grande con i tassi di mercato a zero: «Senza attivazione del rimborso anticipato il flusso di pagamenti sarebbe stato maggiore di quello pagato con il rimborso». Non solo. Grilli, che tra il 2011 e il 2013 è stato prima viceministro e poi ministro dell’Economia, ha anche spiegato che il disallineamento dei tassi sui titoli pubblici da quelli di mercato determinò una situazione «non proteggibile da nessun derivato». La banca americana, che è uno degli specialist del Tesoro nella gestione delle aste, uscì da quel contratto secondo Grilli perché a fine 2009 si era trasformata da banca d’investimento a banca commerciale, che da parte delle autorità di vigilanza c’era una spinta a smontare posizioni costose e quella sull’Italia lo era: «Il costo del derivato, finché non sono esplosi i Cds, era un costo normale: quando il costo dell’Italia s’è dissociato con il balzo dello spread oltre i 500 punti base per loro il costo è decuplicato».
Nel tardo pomeriggio l’audizione di Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia dall’aprile 2013 al febbraio 2014, è stata invece incentrata sui passaggi della trattativa finale per la messa a punto della direttiva sul bail-in, nel dicembre 2013. L’ex ministro (e futuro presidente di Unicredit) ha ricordato le ragioni che, nella sua ricostruzione, hanno pesato sulla messa in minoranza della posizione dell’Italia, che era contraria all’applicazione retroattiva del meccanismo di condivisione dei rischi e proponeva un bail in applicabile solo sulle specifiche passività delle banche e non su quello “allargato” che poi è stato adottato dalla direttiva Ue. Non ultimo l’alto debito pubblico dell’Italia percepito come uno dei principali fattori di rischio – ha affermato Saccomanni – indusse gli altri paesi europei, in primis il gruppo «capeggiato dalla Germania» a portare avanti «la linea severa di coinvolgimento dei creditori delle banche». Saccomanni ha rilevato come l’azione del Governo «ha avuto comunque un certo successo. Per esempio nella direttiva Brrd grazie al nostro intervento è stata inserita una norma sulla ricapitalizzazione precauzionale che poi è stata adottata per Mps».