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 2017  dicembre 22 Venerdì calendario

APPUNTI SULLA CATALOGNA BIS PER GAZZETTA

ILSOLE24ORE.COM –

Il premier spagnolo Mariano Rajoy è pronto a ritirare il commissariamento della Catalogna, scattato con l’attivazione dell’articolo 155, quando sarà stato formato un nuovo governo nella regione. La misura era già prevista nella decisione votata dal Senato a fine ottobre e arriva a seguito di una consultazione che ha visto il fronte dei partiti indipendentisti guadagnare 70 dei 135 seggi disponibili, contro i meno di 60 delle sigle unioniste. Rajoy ha confermato la sua apertura al dialogo, aggiungendo che «il governo spagnolo intende offrire tutta la sua collaborazione e volontà di dialogo costruttivo, aperto e realista, al governo che si costituirà in Catalogna per risolvere i problemi dei catalani». 

A chi gli chiedeva se siano possibili nuove elezioni generali in Spagna dopo la sconfitta catalana, Rajoy ha risposto che non ha alcuna intenzione di indire elezioni anticipate prima della naturale scadenza del 2020 e che il governo sta facendo bene come testimonia la ripresa dell’economia e dell’occupazione. 

No all’incontro con Puigdemont 

Riguardo alla possibilità di avviare un nuovo dialogo con Carles Puigdemont, il leader separatista gia presidente nella passata legislatura della Generalitat catalana, Rajoy ha risposto che intende sedersi al tavolo «con chi ha vinto le elezioni, cioè Ines Arrimadas», la leader del partito Ciudadanos che è arrivato a un picco del 25,3% (percentuale comunque insufficiente a formare un esecutivo). 

Puigdemont, volato a Bruxelles lo scorso novembre, aveva proposto a Rajoy un incontro «fuori dalla Spagna» per evitare l’arresto che scatterebbe in caso di suo rientro, dopo il mandato di cattura emesso dalle autorità spagnole a novembre., «Tornerò in Catalogna se ci sono garanzie del rispetto della democrazia - ha detto Puigdemont in una conferenza stampa a Bruxelles - Il governo spagnolo riconoscerà il risultato delle elezioni, che abbiamo vinto nonostante siano state condotte in modo atroce? Se rispetta la democrazia, torno domani stesso».

Il leader catalano: si rispetti l’esito del voto 

La Junts per Catalunya, il partito capeggiato a distanza da Puigdemont, ha incassat il 21,6% dei consensi e si è imposta come seconda forza dietro agli unionisti di Ciudadanos. Ma la somma con gli altri partiti indipendentisti garantisce comunque margine per una maggioranza. Secondo Puigdemont, Rajoy deve «rispettare l’esito del voto» e accelerare il ritiro dell’articolo 155. «Abbiamo diritto alle nostre istituzioni, negli ultimi anni ci siamo sempre assunti le nostre responsabilità - ha detto - l’articolo 155 non garantisce un paese migliore, è solo una minaccia. Va recuperata questa ingiustizia». Il leader catalano ha rivolto un appello anche alla commissione Ue, rimasta sempre vicina alla posizione di Madrid: «Non chiedo alla Commissione europea di cambiare idea, chiedo però di ascoltarci - ha detto - Chiedo di ascoltare i cittadini che si sono espressi in massa».


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ALESSANDRO OPPES, REPUBBLICA.IT –

CARLES PUIGDEMONT a modo suo ci ha provato a tendere la mano al premier spagnolo all’indomani delle elezioni catalane, che hanno riconfermato la maggioranza secessionista. Da Bruxelles, dove è in esilio, l’ex presidente indipendentista si è detto pronto a dialogare con il premier, fuori dai confini spagnoli, salvo poi dichiarare che Mariano Rajoy "ha fallito". Il primo ministro spagnolo invece da parte sua non ha dubbi e replica fermo: "Mi interfaccerò con chi ha vinto le elezioni: Ines Arrimadas", riferendosi alla leader degli unionisti di Ciudadanos che al voto si sono confermati il primo partito.

Per quanto riguarda le vicende giudiziarie dei politici catalani e dello stesso ex presidente, Rajoy ha ribadito che: "la situazione giudiziaria dell’ex presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont e di tutti gli imputati nel caso dell’indipendenza catalana non dipende "assolutamente" dai risultati delle elezioni regionali di ieri ma dalle decisioni dei giudici. Sono i politici che devono sottomettersi alla giustizia come qualsiasi altro cittadino e non la giustizia che deve sottomettersi a qualsiasi strategia politica".

Rajoy esclude elezioni anticipate in Spagna. "Il governo continua, la legislatura dura quattro anni", ha affermato il primo ministro spagnolo in una conferenza stampa a Madrid, riconfermando la scadenza naturale del 2020.

Il risultato catalano è decisamente poco soddisfacente per il premier, anche perché il suo Partito Popolare (Pp) ha avuto un forte calo in Catalogna, passando da 11 a 3 seggi. "Emergono le debolezze di un progetto politico nazionale che ottiene in Catalogna meno sostegno di un partito antisistema", ha commentato oggi Pedro Sanchez, leader del partito socialista che sostiene dall’esterno il governo Rajoy. Il suo riferimento è al partito secessionista antisistema Cup che ha ottenuto 4 seggi.

"Rajoy deve proporre una soluzione a questo problema in Catalogna. Se propone una roadmap alternativa, saremo disposti ad ascoltarla", ha affermato Sanchez che si è congratulato con Ines Arrimadas e con i "602mila catalani che hanno scelto il partito dei socialisti di Catalogna e Miquel Iceta".

· IL DISCORSO DI PUIGDEMONT
Nel giorno dopo del voto catalano che ha visto trionfare gli indipendentisti pur lasciando agli unionisti di Cuidadanos la carica di primo partito in Catalogna, si susseguono le dichiarazioni e i botta e risposta. Da Bruxelles, dove è in esilio volontario, Carles Puigdemont  parlando in conferenza stampa, ha le idee chiare: "Rajoy ha fallito". L’ex presidente catalano ha poi proseguito dicendo: "Vorrei che la Spagna non prendesse più decisioni al posto nostro. E’ giunto il momento di fare politica vera, la formula di Rajoy ha fallito e ha dimostrato che i catalani sono coesi". Si è detto disponibile a incontrare il premier spagnolo, ma non in Spagna. E poi si è rivolto alla Commissione europea, chiedendole di ascoltare i cittadini che si sono espressi in massa" in Catalogna: "Ascolti il governo spagnolo, ma anche noi abbiamo il diritto di essere ascoltati".

· GLI UNIONISTI
Da Barcellona ha parlato invece il leader unionista di Cuidadanos, Alberto Rivera: "E’ duro sopportare un separatismo illegale, che pretendeva di strappare la Catalogna dalla Spagna, privando di libertà e diritti chi non la pensava come loro. Non siamo stati duri noi, ma molle il Pp che per 35 anni ha costruito il proprio potere a Madrid scendendo a patti con i nazionalisti e concedendo loro quel che volevano. Quando si passano tre decenni a cedere spazio a chi cerca di occuparlo tutto, finisci per trovarti fuori. Ed è quello che è successo. In Catalogna non c’è più Spagna".

"Quel che si è costruito in 35 anni non si cambia in 15 minuti - ha proseguito - Dovremo lavorare su infrastrutture, sicurezza, migliorare l’educazione e le liste d’attesa negli ospedali. Non voglio convincere nessuno, solo creare un ambiente di rispetto per tutti". È disponibile a un indulto per l’ex presidente Puigdemont e gli altri? "No - risponde - Un cittadino che passa col rosso non viene perdonato, perché un politico che sbaglia sì?".

Con quasi tutte le schede ormai contate, il fronte indipendentista composta da JuntsxCat, da Esquerra republicana de Catalunya (Erc) e da popular Unity (Cup) sono in corsa per avere 70 seggi su 135 totali, dunque una maggioranza assoluta per quanto limitata. Tuttavia il partito unionista dei ciudadanos ha avuto un successo storico ottenendo il 25,3% dei suffragi, pari a 37 voti, il che ne fa il primo partito della regione. Non è dunque chiaro chi avrà per primo il compito di formare il nuovo governo, se Ciudadanos o Jxcat.

· ALTRI SEI SEPARATISTI SOTTO INCHIESTA
Intanto il governo di Madrid va avanti nella sua intenzione di perseguire tutti coloro che hanno portato avanti il progetto dell’indipendenza. Altri sei esponenti indipendentisti Catalani sono finiti sotto inchiesta con le accuse di ribellione, sedizione e corruzione all’indomani della vittora dei separatisti alle elezioni regionali.

Il giudice Pablo Ilarena ha deciso di includere nell’inchiesta Marta Rovira, eletta ieri. Rovira è numero due della Sinistra repubblicana di Catalogna (Erc) il cui presidente Oriol Junqueras è già in carcere. Nel mirino della Corte suprema è finito anche il predecessore di Puigdemont alla guida del governo regionale, Artur Mas, già colpito da due anni di ineleggibilità per aver organizzato nel 2014 un referendum consultivo sull’indipendenza. Indagati sono poi Marta Pascal, dirigente del loro partito, due ex deputati del partito indipendentista di estrema sinistra Cup, Anna Gabriel e Mireia Boya e la presidente dell’associazione delle municipalità per l’indipendenza, Neus Lloveras.

Secondo il giudice Llarena, tutti i sei, indagati anche per ribellione e storno di fondi pubblici, facevano parte del Comitato strategico del processo indipendentista. Lo proverebbe un documento sequestrato dalla Guardia civil prima del referendum secessionista. Queste sei persone si aggiungono alle 22 già incriminate per il loro ruolo nel processo di indipendenza catalana culminato il 27 ottobre con il voto per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza al parlamento regionale. Rischiano 30 anni di carcere per avere portato avanti il progetto politico dell’indipendenza.


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CORRIERE.IT – 

Le due maggiori liste indipendentiste catalane sono pronte a formare un nuovo governo, hanno indicato oggi i portavoce Elsa Artadi e Sergi Sabria. Le tre liste del fronte della secessione hanno riconquistato ieri una maggioranza assoluta di 70 seggi su 135 nel Parlamento di Barcellona. Artadi ha detto che Carles Puigdemont «deve tornare il prima possibile e essere eletto presidente». Il premier Mariano Rajoy, il grande sconfitto del voto di ieri, ha riunito in mattinata il suo governo a Madrid. «La nostra posizione su questa questione è nota e non cambierà» fa sapere una portavoce della Commissione Ue a proposito dei risultati del voto delle elezioni regionali in Catalogna.


Risultati

Il primo partito è Ciudadanos, fortemente unionista, che ha ottenuto 37 seggi, 12 in più di quelli guadagnati nel 2015. Junts per Catalunya (la lista indipendentista dell’ex presidente catalano destituito, Carles Puigdemont), Esquerra Republicana (sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras attualmente in carcere) e Cup (sinistra radicale indipendentista) hanno ottenuto complessivamente 70 seggi su 135, due in più di quelli necessari per assicurarsi la maggioranza in Parlamento e due in meno rispetto quelli che controllavano nella precedente legislatura. Il Partito Popolare Catalano (Ppc) di Rajoy è andato peggio di tutti, perdendo 8 seggi rispetto al 2015.


Prossimi passi

La sessione costitutiva dell’assemblea catalana dovrà tenersi entro il 23 gennaio e il primo turno per l’elezione del presidente dovrà svolgersi entro il 10 febbraio. Se per aprile non sarà stato possibile eleggere il nuovo presidente, scatterà lo scioglimento automatico dell’assemblea con nuove elezioni a fine maggio. C’è molta incertezza su quello che potrà succedere. Puigdemont, il leader della lista indipendentista più votata, sarebbe il naturale candidato a ricevere la fiducia parlamentare ma se tornasse in Spagna verrebbe immediatamente arrestato, come Junqueras, per sedizione e ribellione. Rajoy ha promesso di restituire alla Catalogna la sua piena autonomia politica e istituzionale se saprà dotarsi di un nuovo governo che rinunci a qualsiasi velleità secessionista.


«Tempo per dialogare»

Da Bruxelles, le prime reazioni di Puigdemont non sembrano andare nella direzione voluta da Madrid: «Nelle urne catalane lo Stato spagnolo ha perso» - aveva detto a caldo il President «in esilio» — La Repubblica catalana ha sconfitto la monarchia spagnola». Anche oggi il leader catalano è tornato a parlare da vincitore, aprendo la porta al dialogo che Madrid ritiene però possibile solo a condizione che la controparte rinunci espressamente alla secessione: «Sono pronto a incontrare Rajoy qui a Bruxelles. Dobbiamo trovare soluzioni per i nostri cittadini. La politica non si fa senza il dialogo. E’ tempo per riparare i danni. Questo è il messaggio che voglio mandare a nome della Catalogna».


Rajoy: «No a incontro con Puigdemont»

Il premier iberico ha però respinto al mittente la richiesta di incontro avanzata da Puigdemont: «Non parlo con lui, dovrei sedermi con chi ha vinto le elezioni, che è Ines Arrimadas» ha detto. Per poi spiegare però che il governo spagnolo è pronto ad avviare una «nuova tappa» di «dialogo» con il governo che sarà formato in Catalogna. Le elezioni «richiedono un nuovo inizio. Si è aperta una finestra di opportunità, sono fiducioso. Il governo spagnolo fornirà la sua volontà di dialogo costruttivo, aperto, realista, sempre nel contesto della legge, e offrirà una mano tesa al governo catalano per risolvere i problemi, per migliorare il benessere e la ricchezza dei catalani» ha detto Rajoy. Il premier ha poi sottolineato: «Il governo continua con ciò che ha detto: i legislatori sono in carica per quattro anni, siamo in grado di governare e non ho nessuna intenzione si anticipare le elezioni generali, che saranno convocate nel 2020».


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E DOMANI REAL-BARCELLONA – CORRIERE.IT –

Le due maggiori liste indipendentiste catalane sono pronte a formare un nuovo governo, hanno indicato oggi i portavoce Elsa Artadi e Sergi Sabria. Le tre liste del fronte della secessione hanno riconquistato ieri una maggioranza assoluta di 70 seggi su 135 nel Parlamento di Barcellona. Artadi ha detto che Carles Puigdemont «deve tornare il prima possibile e essere eletto presidente». Il premier Mariano Rajoy, il grande sconfitto del voto di ieri, ha riunito in mattinata il suo governo a Madrid. «La nostra posizione su questa questione è nota e non cambierà» fa sapere una portavoce della Commissione Ue a proposito dei risultati del voto delle elezioni regionali in Catalogna.


Risultati

Il primo partito è Ciudadanos, fortemente unionista, che ha ottenuto 37 seggi, 12 in più di quelli guadagnati nel 2015. Junts per Catalunya (la lista indipendentista dell’ex presidente catalano destituito, Carles Puigdemont), Esquerra Republicana (sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras attualmente in carcere) e Cup (sinistra radicale indipendentista) hanno ottenuto complessivamente 70 seggi su 135, due in più di quelli necessari per assicurarsi la maggioranza in Parlamento e due in meno rispetto quelli che controllavano nella precedente legislatura. Il Partito Popolare Catalano (Ppc) di Rajoy è andato peggio di tutti, perdendo 8 seggi rispetto al 2015.


Prossimi passi

La sessione costitutiva dell’assemblea catalana dovrà tenersi entro il 23 gennaio e il primo turno per l’elezione del presidente dovrà svolgersi entro il 10 febbraio. Se per aprile non sarà stato possibile eleggere il nuovo presidente, scatterà lo scioglimento automatico dell’assemblea con nuove elezioni a fine maggio. C’è molta incertezza su quello che potrà succedere. Puigdemont, il leader della lista indipendentista più votata, sarebbe il naturale candidato a ricevere la fiducia parlamentare ma se tornasse in Spagna verrebbe immediatamente arrestato, come Junqueras, per sedizione e ribellione. Rajoy ha promesso di restituire alla Catalogna la sua piena autonomia politica e istituzionale se saprà dotarsi di un nuovo governo che rinunci a qualsiasi velleità secessionista.


«Tempo per dialogare»

Da Bruxelles, le prime reazioni di Puigdemont non sembrano andare nella direzione voluta da Madrid: «Nelle urne catalane lo Stato spagnolo ha perso» - aveva detto a caldo il President «in esilio» — La Repubblica catalana ha sconfitto la monarchia spagnola». Anche oggi il leader catalano è tornato a parlare da vincitore, aprendo la porta al dialogo che Madrid ritiene però possibile solo a condizione che la controparte rinunci espressamente alla secessione: «Sono pronto a incontrare Rajoy qui a Bruxelles. Dobbiamo trovare soluzioni per i nostri cittadini. La politica non si fa senza il dialogo. E’ tempo per riparare i danni. Questo è il messaggio che voglio mandare a nome della Catalogna».


Rajoy: «No a incontro con Puigdemont»

Il premier iberico ha però respinto al mittente la richiesta di incontro avanzata da Puigdemont: «Non parlo con lui, dovrei sedermi con chi ha vinto le elezioni, che è Ines Arrimadas» ha detto. Per poi spiegare però che il governo spagnolo è pronto ad avviare una «nuova tappa» di «dialogo» con il governo che sarà formato in Catalogna. Le elezioni «richiedono un nuovo inizio. Si è aperta una finestra di opportunità, sono fiducioso. Il governo spagnolo fornirà la sua volontà di dialogo costruttivo, aperto, realista, sempre nel contesto della legge, e offrirà una mano tesa al governo catalano per risolvere i problemi, per migliorare il benessere e la ricchezza dei catalani» ha detto Rajoy. Il premier ha poi sottolineato: «Il governo continua con ciò che ha detto: i legislatori sono in carica per quattro anni, siamo in grado di governare e non ho nessuna intenzione si anticipare le elezioni generali, che saranno convocate nel 2020».



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FRANCESCO OLIVO, LASTAMPA.IT –

L’indipendentismo che recupera il governo e Mariano Rajoy ultimo. La sintesi basta per far sorridere i secessionisti, dopo mesi durissimi. Niente feste vere e proprie a Barcellona, troppe le difficoltà da affrontare e i guai da risolvere, primo fra tutti quello degli eletti ancora in carcere o all’estero in fuga dalla giustizia. 

Il più soddisfatto infatti non è in Catalogna, l’ex presidente Carles Puigdemont da Bruxelles dove si trova in quello che chiama “esilio”, forte di un gran risultato elettorale offre un appuntamento al nemico: “Propongo un incontro a Rajoy senza condizioni, vediamoci ma fuori dal territorio spagnolo”. Puigdemont è ricercato dalla giustizia, senza mandato di cattura internazionale, ma con la certezza che una volta varcati i confini la polizia scatterebbero le manette. Il capolista di Junts per Catalunya, la nuova sigla dei nazionalisti catalani, non pensa quindi di tornare e parla di “disfatta della ricetta di Rajoy. “Adesso è il momento della politica e non della repressione - aggiunge - Chiediamo solo di essere ascoltati”. Il programma di Puigdemont non è chiaro, che fine farà il processo indipendentista? Il blocco che chiede l’addio alla Spagna ha la maggioranza per governare ancora questa regione, ma per il momento il tutto si risolve in una richiesta: “Torni il governo legittimo”, ovvero quello fatto fuori dalla Spagna con l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione.  

Rajoy è il grande sconfitto delle elezioni che lui stesso ha convocato sperando di sconfiggere gli indipendentisti. I colpi ricevuti ieri sono due: il consolidamento dei separatisti e il trionfo dei centristi di Ciudadanos che hanno fatto il pieno di voti all’interno del blocco unionista. Il premier subisce critiche da tutti i lati, la sinistra lo accusa di non aver ascoltato per troppo tempo le richieste dei catalani e la destra gli imputa, al contrario, una debolezza eccessiva con i “golpisti”. A metà mattina l’annuncio delle prime crepe: lo storico capo di gabinetto Jorge Moraga lascia il governo e va a fare l’ambasciatore spagnolo all’Onu. “Avevo deciso da un anno” spiega, ma il giorno è tale che nessuno pensa a una coincidenza.  

INCRIMINATO IL 12% DEL NUOVO PARLAMENTO  

Il 12,6% dei membri del nuovo parlamento catalano (17 deputati su 135) è incriminato dalla giustizia spagnola, tre neo-onorevoli sono in carcere e tre in esilio inseguiti da mandato di arresto. Tutti sono accusati di “ribellione” per avere portato avanti pacificamente il progetto politico dell’indipendenza e rischiano 30 anni di carcere. Il più autorevole candidato alla presidenza catalana Carles Puigdemont è “in esilio” in Belgio, il probabile vicepresidente Oriol Junquerqas è in carcere a Madrid. Il Tribunale Supremo spagnolo ha dichiarato indagati per presunta ribellione altri dirigenti catalani fra cui l’ex-presidente Artur Mas e le dirigenti di Erc Marta Rovira, PdeCat Marta Pascal e Cup Anna Gabriel. Per lo stesso presunto reato sono già incriminati il president Carles Puigdemont, i membri del suo governo e la presidente del Parlament Carme Forcadell. Rischiano 30 ani di carcere per avere portato avanti il progetto politico dell’indipendenza. 



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IL POST –

Ieri si è votato in Catalogna, alla fine di una delle campagne elettorali più eccezionali e imprevedibili degli ultimi anni in Europa. Le elezioni erano state convocate dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, dopo l’inizio di una grave crisi tra governo catalano e stato spagnolo: cioè dopo il referendum sull’indipendenza della Catalogna dell’1 ottobre e la successiva dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlamento catalano, entrambe giudicate illegali dal governo spagnolo. Il voto di ieri, nelle intenzioni di Rajoy, avrebbe dovuto disinnescare il progetto indipendentista, ma le cose sono andate diversamente.

Il blocco indipendentista – formato da Junts per Catalunya (JxCat), la lista dell’ex presidente Carles Puigdemont, Esquerra Republicana (ERC), la sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, e la CUP, la sinistra radicale – ha ottenuto di nuovo la maggioranza parlamentare: 70 seggi, due in più di quelli necessari per controllare il Parlamento catalano. Sono partiti diversissimi, dal centrodestra all’estrema sinistra, che sono coalizzati solo sulla base della posizione comune a favore dell’indipendenza. Gli indipendentisti però non hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, così come era successo alle ultime elezioni, nel 2015, e si sono fermati al 47,49 per cento. La lista più votata del blocco indipendentista è stata quella dell’ex presidente Carles Puigdemont, che però da settimane si trova a Bruxelles, in Belgio, per evitare di essere giudicato dai tribunali spagnoli per i reati di ribellione e sedizione, che prevedono fino a 30 anni di carcere. Non è chiaro, quindi, chi sarà il prossimo presidente della Catalogna o come sarà fatto il nuovo governo.


Il giorno della marmotta

Dopo la grave crisi politica che ha coinvolto per settimane il governo catalano guidato da Carles Puigdemont e lo stato spagnolo, il voto indetto da Rajoy e tenuto ieri ha mostrato chiaramente una cosa: rispetto alle elezioni del 2015 è cambiato poco o niente. Gli indipendentisti catalani hanno ottenuto di nuovo la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti: governeranno di nuovo, ma di nuovo non avranno la legittimità politica e sociale per agire in via unilaterale. Il Partito Popolare, la forza politica che governa in Spagna, si è dimostrato ancora una volta estremamente impopolare in Catalogna, perdendo per giunta quasi la metà dei pochi consensi che aveva messo insieme nel 2015. Ma questa non è una novità per la politica spagnola, e anzi è stato in qualche modo un vantaggio per i Popolari in questi anni, come avevamo spiegato qui:

I leader locali del PP catalano sono i più impopolari in ogni sondaggio, ma lo stesso partito nazionale non ha grande interesse a investire in Catalogna per cambiare la situazione. Come ha scritto il catalano Ton Vilalta sul Lavoro Culturale, «la storia elettorale spagnola degli ultimi 20 anni ci insegna che il PP non ha bisogno di ottenere buoni risultati in Catalogna per governare in Spagna. […] In più, mostrarsi inflessibili di fronte alle rivendicazioni dei nazionalisti catalani è spesso redditizio in termini di consenso nel resto del paese. Al contrario, la geografia elettorale spagnola impone a un ipotetico governo alternativo, composto da PSOE e/o Podemos, di ottenere un ottimo risultato in Catalogna per avere i numeri per governare». Questo fa sì che i partiti con ambizioni nazionali diversi dal PP, come PSOE e Podemos, entrambi rappresentati nel Parlamento catalano, debbano ogni volta trovare un modo per mettere insieme un discorso che possa funzionare sia in Catalogna che nel resto della Spagna. E non è facile.


Se si guardano i dati elettorali dei due blocchi – indipendentista e anti-indipendentista – i risultati di ieri sono molto simili a quelli ottenuti alle elezioni del 2015, da cui era uscito il governo di Carles Puigdemont: l’indipendentismo ha vinto, ma non abbastanza; l’anti-indipendentismo ha perso, ma non del tutto.

Antón Losada, opinionista del Diario, ha scritto: «In Catalogna coesistono due minoranze maggioritarie e a entrambe mancano le percentuali e la legittimità per promuovere in maniera unilaterale i propri obiettivi o bloccare in maniera permanente le domande dell’altra minoranza». L’impressione è che la politica catalana sia di nuovo in una situazione di stallo e che il governo spagnolo, nonostante la dura reazione degli ultimi mesi, si ritrovi punto e a capo.


I due vincitori: Puigdemont e Arrimadas

Nonostante le complicazioni della politica catalana, si può dire con certezza una cosa. Al di là dei blocchi, ci sono stati dei vincitori politici: Carles Puigdemont e Inés Arrimadas. L’homepage del quotidiano spagnolo Confidencial di questa mattina diceva: «Gana Arrimadas, vence Puigdemont» («ganar» e «vencer» significano «vincere», con sfumature diverse).

Il partito di Arrimadas, Ciutadans, ha ottenuto ieri un risultato senza precedenti. Ciutadans fu fondato in Catalogna nel 2005 e negli anni successivi ottenne buoni risultati anche a livello nazionale (alle ultime elezioni spagnole è stato il quarto partito più votato). È da sempre anti-indipendentista, mentre per diverso tempo è stato piuttosto difficile collocarlo sull’asse destra-sinistra. Oggi viene definito un partito di destra, ma avversario del PP di Mariano Rajoy. Ciutadans ha ottenuto ieri il 25 per cento dei voti, pari a 37 seggi, rispetto al 17 per cento del 2015, pari a 25 seggi. È riuscito a sottrarre molti voti agli altri partiti del blocco anti-indipendentista, in particolare proprio al PP catalano.

La più grande sorpresa delle elezioni è stata però la vittoria di JxCat nel blocco indipendentista: una vittoria risicata – JxCat ha ottenuto solo 10mila voti in più di ERC, la seconda forza indipendentista – ma molto importante. JxCat non è un partito politico: è una lista messa in piedi da Carles Puigdemont con l’aiuto logistico del suo partito, il PDeCAT (di centrodestra), che all’inizio della campagna elettorale veniva data molto indietro rispetto a ERC. Puigdemont è riuscito a recuperare lo svantaggio e a presentarsi così come il candidato naturale a diventare il prossimo presidente catalano. C’è solo un problema: Puigdemont si trova in Belgio e se dovesse rientrare in Spagna verrebbe immediatamente arrestato per ribellione e sedizione. Ieri sera alcuni giornalisti gli hanno chiesto quali sono le sue intenzioni: tornerà o non tornerà? Ha fatto il vago, non ha risposto.


La polarizzazione dei blocchi e l’irrilevanza di En Comú-Podem

Nelle ultime settimane in Catalogna si è spesso discusso sulla base di due visioni alternative. Una, sostenuta dai partiti politici e da una parte della stampa più schierata, diceva che le elezioni avrebbero sancito la fine dell’indipendentismo catalano oppure che avrebbero punito definitivamente lo stato spagnolo e dato la maggioranza assoluta dei voti al blocco favorevole all’indipendenza. L’altra, sostenuta dagli analisti più moderati e praticamente da tutti i sondaggi, diceva che la politica catalana era diventata così polarizzata che non ci sarebbe stato grande spostamento di voti da un blocco all’altro, ma solo da un partito all’altro dello stesso blocco. Avevano ragione i secondi.

Ciutadans ha sottratto voti al PP e ad altre forze anti-indipendentiste, Puigdemont ne ha tolti soprattutto a ERC, i suoi ultimi alleati di governo. Grandi spostamenti di voti da un blocco all’altro, auspicati da entrambi gli schieramenti prima delle elezioni, non ce ne sono stati.


Questa polarizzazione è stata dimostrata anche dal pessimo risultato di En Comú-Podem, una coalizione di forze che include i cosiddetti “comuni”, cioè il movimento vicino alla sindaca di Barcellona Ada Colau, e Podem, la sezione catalana di Podemos. Per diverso tempo lo slogan di En Comú-Podem è stato: «né con la DUI né con il 155», ovvero né con la dichiarazione d’indipendenza unilaterale del governo Puigdemont né con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione da parte del governo spagnolo di Rajoy, quello che di fatto ha sospeso l’autonomia della Catalogna. In pratica la posizione di En Comú-Podem era una sorta di terza via moderata, alternativa all’intransigenza dei due principali blocchi, anti-indipendentista ma favorevole a tenere un referendum legale sull’indipendenza.

Prima delle elezioni, il leader di En Comú-Podem, Xavier Domènech, aveva detto di puntare ad ottenere più di 20 seggi: ne ha ottenuti 8.


Rajoy ha fallito, e questa è un’altra certezza

Da quando è iniziata la crisi in Catalogna, il primo ministro Rajoy è stato celebrato più volte come un campione di strategia politica: in particolare è stato molto applaudito per avere convocato elezioni anticipate il 21 dicembre, spiazzando i partiti indipendentisti che si aspettavano di avere più tempo per mettere in piedi una campagna elettorale efficace. Le elezioni di ieri sono state però una dura sconfitta per il suo partito.

Il Partito Popolare catalano (PPC) guidato da Xavier García Albiol, è da sempre una delle forze più impopolari in Catalogna, ma non aveva mai subìto una sconfitta così netta come quella di ieri: è passato da 350mila voti del 2015, pari a 11 seggi, a 185mila voti di ieri, pari a 3 seggi. Ha ottenuto quasi 10mila voti in meno della CUP, un partito di sinistra radicale e marxista, e nel prossimo Parlamento non potrà costituirsi come gruppo parlamentare: i suoi tre deputati finiranno nel gruppo misto.


In altre parole, la strategia di Rajoy verso l’indipendentismo è stata un completo fallimento: i voti della destra anti-indipendentista sono stati presi tutti da Ciutadans.

I risultati di ieri hanno inoltre fatto emergere un enorme problema politico in Catalogna: con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, cioè quello usato per costringere una Comunità autonoma (come la Catalogna) a rispettare la legge, il governo spagnolo guidato dal PP è diventato il titolare di diversi poteri prima attribuiti al governo catalano. Quello che si chiedono in molti ora è: è legittimo che una forza politica che in Catalogna rappresenta meno del 5 per cento della popolazione, il Partito popolare, sia titolare dei poteri che normalmente sono attribuiti a un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare?


E ora?

I risultati delle elezioni dicono che l’unica maggioranza possibile oggi in Catalogna è quella formata dal blocco indipendentista, JxCat, ERC e la CUP (70 seggi). Prima del voto si erano ipotizzate altre due soluzioni, che però ora sembrano diventate impraticabili. La prima prevedeva un’alleanza tra le forze di sinistra, sia indipendentiste che anti-indipendentiste, ma è naufragata per il risultato pessimo di En Comú-Podem, quello modesto del Partito Socialista (PSC) e quello sotto le attese di ERC. Come dimostra il “pactómetro” della Vanguardia, l’alleanza tra questi tre partiti arriverebbero a 57 seggi, 11 in meno dei 68 necessari per arrivare alla maggioranza assoluta.

La seconda opzione di cui si era parlato era un governo di minoranza guidato da Miquel Iceta, leader del PSC, il quale avrebbe potuto ottenere l’incarico di presidente grazie alle astensioni provenienti da destra e da sinistra. Iceta però è andato malino, meglio delle ultime elezioni ma sotto le sue personali attese.

Non è chiaro invece come sarà il nuovo governo, nonostante la maggioranza indipendentista. Il blocco JxCat, ERC e la CUP non sembra essere solidissimo: da tempo c’è parecchia tensione tra JxCat ed ERC – tensione già emersa nelle fasi finali dell’ultimo governo – senza contare che diversi politici eletti si trovano in prigione o all’estero, accusati dalla giustizia spagnola di reati come sedizione e ribellione. Ieri Puigdemont è tornato a chiedere a Rajoy di far uscire i leader politici in carcere e permettere a quelli all’estero, tra cui lui stesso, di tornare in Catalogna per poter prendere possesso del seggio parlamentare ottenuto. Rajoy non sembra però nella posizione di poter soddisfare le richieste di Puigdemont, anche se lo volesse, visto che gli ordini di carcerazione sono stati emessi dai tribunali.


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STEFANO STEFANINI, LA STAMPA 22/12 –

Mariano Rajoy ha perso la scommessa. La Catalogna è spaccata in due. Come prima, più di prima. Se gli exit poll sono giusti, il voto di ieri riporta alla Generalitat una maggioranza indipendentista di stretta misura, in debito di coalizione. Madrid e Barcellona ritornano così al punto di partenza con l’aggravante di Puigdemont in esilio brussellese, di altri leader incarcerati, di spiriti inaspriti dal confronto e dall’applicazione dell’Articolo 155.  

Gli indipendentisti vincono, ma se un catalano su due vuole restare spagnolo, e la differenza in più è appena qualche decimale, non possono certo vantare il consenso. Riescono a malapena a governare, certo non a creare un nuovo Stato indipendente nel cuore mediterraneo dell’Europa. Non l’hanno minimamente preparato se non a parole, provocando una fuga economico-commerciale e seminando confusione e disordine civile.  

 

Madrid contempla l’impotenza del ricorso a strumenti costituzionali, legali ma impopolari, per risolvere un problema eminentemente politico, identitario - e finanziario-fiscale. Non ha scalfito l’opinione pubblica catalana; usando la mano pesante ha rafforzato l’insofferenza indipendentista.  

 

E’ tempo per entrambi di venire a più miti, e soprattutto a più ragionevoli, consigli nell’interesse della Catalogna, della Spagna, dell’Europa. Barcellona non ha capacità d’indipendenza nazionale; Madrid non ha quella d’imporre l’unità. È necessaria una composizione politica. Anziché cacciare la testa sotto la sabbia come se il problema fosse «res inter alios acta» Bruxelles deve pensare a come discretamente incoraggiarla. Così pure i partner europei amici della Spagna.  

 

Spagna e Catalogna escono con le ossa rotte da tre mesi di pacifico ma massiccio disordine politico e civile. Per due volte la popolazione catalana è stata chiamata alle urne. Sono stati entrambi referendum mancati: l’uno illegale, e disertato da circa più del 40% degli elettori; l’altro a malapena mascherato. Dopo un confronto aspro e prolungato fra unionisti e indipendentisti, dopo seri danni economici e di credibilità alla ragione più prospera della Spagna, dopo una crisi politico-costituzionale che ha assorbito le risorse mentali del governo spagnolo - del quarto Paese dell’Ue post-Brexit - Madrid e Barcellona non hanno fatto alcun passo in avanti verso una soluzione della questione catalana. L’unica nota positiva è che si sono entrambe fermate sul ciglio del baratro. 

 

Il voto di ieri dimostra quanto sia spaccata la gente: in una democrazia il sentimento popolare conta più di qualsiasi Costituzione. Né Puigdemont e gli altri leader indipendentisti, né Rajoy e le forze politiche nazionali hanno fatto molto per colmare la frattura; semmai il fossato si è allargato. Gli uni e gli altri devono ora invertire direzione di marcia. Né il salto nel buio senza rete di sicurezza della dichiarazione d’indipendenza, né l’imposizione legalistica dell’ordine costituzionale a tempo indeterminato possono essere la soluzione. La prima è velleitaria ed ha provocato un immediato esodo di società e imprenditori; l’Articolo 155 è, al massimo, una temporanea misura d’emergenza non un metodo di governo.  

 

E’ ora di cercare un punto d’incontro: un’onorevole tregua che consenta ad ambo le parti di salvare la faccia e di lavorare insieme, ciascuno nel rispetto della metà circa dei catalani che la pensa diversamente. Gli indipendentisti devono rendersi conto che uno Stato non s’improvvisa e che l’uscita dalla Spagna è anche un’uscita dall’Ue e dalla rete internazionale. La coda di riammissione è lunga.  

Madrid ha tamponato la falla ma non può non riconoscere che l’unità nazionale ha bisogno del consenso anche in loco; non si può imporre. Innumerevoli esempi provano che quando il sentimento indipendentista è in bilico, come chiaramente lo è in Catalogna, un effettivo decentramento decisionale consente di preservare il tessuto connettivo nazionale. Nel caso della Catalogna la molla indipendentista è largamente fiscale. Meno tasse a Madrid annacquerebbero molto il desiderio di nazionalità catalana.  

 

Per il resto dell’Europa la lezione è chiara: le scelte difficili si fanno con la politica non a colpi di referendum - esercizio solo apparente di democrazia. 


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OMERO CIAI, LA REPUBBLICA 


Ha umiliato i popolari di Rajoy e battuto le due formazioni indipendentiste — Esquerra republicana di Oriol Junqueras e Junts per Catalunya di Carles Puigdemont — , arrivando al primo posto — in seggi e in consensi — alle elezioni catalane ma la lunga e trionfale corsa di Inés Arrimadas e del suo partito, Ciudadanos (Ciudatans in Catalogna), potrebbe alla fine risultare più importante sul piano nazionale che su quello locale.Nonostante il successo elettorale della sua giovane leader non sarà facile per ora vedere per la prima volta alla presidenza dell’autonomia — la Generalitat — una persona non nata in Catalogna. Però è lei la vincitrice morale di questo voto ed è comunque lei, insieme al leader nazionale di Ciudadanos, Albert Rivera, che ha avuto la forza di concentrare il voto unionista e di risvegliare l’interesse, portandoli alle urne, di tantissimi ex astenuti mobilitati per difendere non solo l’unità con Madrid ma anche quella con l’Europa.Però quello catalano è un risultato che lancia Ciudadanos alla conquista dell’egemonia nel centrodestra spagnolo oggi dominato dai Popolari di Mariano Rajoy. Nato nel 2005 proprio a Barcellona da un piccolo movimento civico di intellettuali e docenti, il partito di Rivera e Arrimadas è stato residuale fino alla stagione dei grandi scandali di corruzione e del movimento degli “indignados” che vide l’affermarsi di formazioni politiche nuove: Podemos a sinistra e, appunto, Ciudadanos a destra. A partire dal 2015, il partito di Rivera si afferma come il centrodestra nuovo e pulito, non toccato dalla corruzione, e prima a Barcellona e poi nel voto nazionale ottiene i suoi migliori exploit rivendicando il centrismo di Adolfo Suárez, il presidente dei primi governi post-franchisti dopo la fine della dittatura, ormai 40 anni fa.Ora in Catalogna Rivera e Inés hanno addirittura inghiottito Rajoy. C’è sicuramente l’effetto di una corsa al “voto utile” che ha trascinato gli elettori del centrodestra a scegliere chi, nel blocco unionista, aveva più possibilità di vincere. Almeno la sfida del primo posto, anche se non quella per il governo. Però il disastro del partito di Rajoy in Catalogna, che passa da 11 seggi a 3, con meno del 3% dei voti avrà certamente un riflesso nazionale.Il terrore di Rajoy e del suo partito è che, dopo essere stato costretto a chiedergli i voti per formare il governo a Madrid, ora Ciudadanos diventi sempre più chiaramente anche una alternativa nell’egemonia del centro destra. Una nuova opzione non solo politica ma anche generazionale all’antica, un po’ ammuffita, e molto corrotta, guida della destra.L’altra sorpresa è il partito dell’ex presidente Puigdemont al primo posto nel blocco nazionalista.L’esule — Puigdemont — ha battuto il prigioniero — Junqueras — . È anche l’effetto dello storico “presidenzialismo” dei nazionalisti catalani. Il presidente prima di tutto e nonostante tutto. Così la “lista” di Puigdemont che all’inizio della campagna elettorale era addirittura sotto i socialisti e andata crescendo molto oltre il reale appoggio che ha il suo partito. L’obiettivo degli indipendentisti era battere Madrid rimettendo al suo posto il loro simbolo nazionale, cioè Puigdemont, nonostante tutti gli errori che possa aver commesso.Così “Puigdi” adesso si candida a tornare in quel palazzo di Barcellona da dove Rajoy lo aveva cacciato due mesi fa con l’applicazione dell’articolo 155. A Madrid il premier Rajoy non deve solo leccarsi le ferite per come Ciudadanos gli ha strappato almeno 7 seggi. La nuova maggioranza assoluta indipendentisti riapre la crisi. Se Puigdemont rientra, lo arresteranno?
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ANDREA BONANNI, LA REPUBBLICA –
La nazione unitaria esce con le ossa rotte da uno scontro che Madrid ha condotto senza tolleranza e visione. Le ferite sono profondissime. Dopo Londra con la Brexit, anche Barcellona e Madrid sono costrette a constatare quanto possa essere elevato il costo da pagare alla cattiva politica. Una lezione su cui l’Europa, attraversata da un’epidemia di instabilità dei governi nazionali, dovrebbe meditare. Ora tutto sarà più difficile. E riscoprire il buon senso della buona politica richiederebbe di scavare sotto strati di rancori e ingiustizie.Nonostante abbiano ottenuto la maggioranza assoluta, e anzi proprio per questo, gli indipendentisti dovrebbero mettere la sordina alla voglia di secessione facendo prova di quella ragionevolezza che il governo di Madrid non ha trovato. Il loro stesso popolo è diviso sull’indipendenza. E l’economia catalana subirebbe un colpo mortale se si trovasse isolata dal resto della Spagna e dell’Europa. Barcellona può ora negoziare da posizioni di forza per ottenere la piena autonomia politica ed economica che la destra spagnola le ha troppo a lungo negato. Il sacrosanto principio del diritto all’autodeterminazione è uscito confermato dalle urne. Ma trasformare un principio in un programma politico può rivelarsi un errore fatale.Quanto alla Spagna, dovrebbe prendere atto che una vera democrazia, quale giustamente pretende di essere diventata dopo i decenni del franchismo, non si esaurisce solo nella cieca osservanza del diritto acquisito, ma si pone come il legittimo artefice delle leggi. Che possono e spesso devono cambiare. L’autonomia catalana, concessa anni fa dal governo socialista e votata dai Parlamenti di Madrid e Barcellona, era stata in parte limitata da una sentenza della Corte suprema sollecitata dalla destra di Rajoy. Quel peccato originale è all’origine dell’atteggiamento legalistico e repressivo con cui il governo spagnolo ha fatto precipitare la situazione. Ora è tempo di prendere atto che il nazionalismo spagnolo può e deve essere sottoposto al vaglio dei tempi e delle mutate condizioni culturali e politiche.L’Europa del terzo millennio è ancora fondata sugli Stati nazionali e non sulle regioni, come sognavano i suoi padri fondatori federalisti. Ma certo non può essere fondata su Stati centralisti e repressivi, antagonisti delle mille identità culturali che li attraversano.L’appoggio che Rajoy ha ricevuto dalle altre capitali europee non è incondizionato.E Bruxelles ha avuto un ruolo nel convincere il premier spagnolo a indire quanto prima le elezioni dopo aver sospeso l’autonomia catalana. Ora è arrivato il momento di riaprire un dialogo che non avrebbe mai dovuto essere interrotto.