La Stampa, 22 dicembre 2017
Costituzione. Avventuroso iter tra scontri fisici e cene in trattoria
«Alle 17 fece il suo ingresso il Governo… Terracini e De Gasperi si disposero ai due lati del tavolo ricoperto da un velluto cremisi consunto, con due calamai di bronzo e quattro penne a cannotto». A Palazzo Giustiniani, come illustrava sulla Stampa l’articolo di Ugo Zatterin, era arrivato il gran momento. Il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il presidente dell’Assemblea Costituente, Umberto Terracini, e il premier Alcide De Gasperi il 27 dicembre 1947 si accingevano ad apporre il suggello ufficiale alla Carta costituzionale. L’elaborazione dei 139 articoli della neonata Costituzione, approvata cinque giorni prima dall’Assemblea, aveva avuto una gestazione durata 18 lunghi mesi e segnata da un aspro e intenso dibattito.
Furono numerosi i contrasti che divisero i 556 deputati in un clima conflittuale, di guerra fredda e di blocchi contrapposti. Come superarono i padri e le madri (queste ultime erano solo 21) costituenti le loro radicali divisioni? Come venne realizzato l’ambizioso programma di dar vita alla legge fondamentale dello Stato? Per celebrare l’anniversario dello storico evento, per rievocare il cammino pieno d’incognite e il raggiungimento della meta finale, il 27 dicembre RaiStoria manderà in onda lo speciale La firma della Costituzione (ore 21,10, a cura di Roberto Fagiolo, regia di Matteo Bardelli, con filmati d’epoca, con le voci dei protagonisti, da Aldo Moro a Terracini, da Lelio Basso a Meuccio Ruini, e interviste a Giuliano Amato e Chiara Giorgi).
L’avventuroso iter dei costituenti aveva preso avvio il 2 giugno 1946 con la loro elezione all’Assemblea Costituente. Ma le radici della Costituzione – lo sottolineava Piero Calamandrei – affondavano «nelle montagne dove caddero i partigiani e nei campi dove furono impiccati». Nella Resistenza c’erano i presupposti della Carta repubblicana: «Le repubbliche partigiane dell’Ossola e della Carnia, creando dei governanti, offrirono agli Alleati», commenta Amato, «interlocutori estranei al vecchio regime».
Oltre le divisioni
I partiti antifascisti avevano in comune l’obiettivo di lasciarsi alle spalle l’odiata dittatura. Ma non c’era alcuna solidarietà. Al contrario. «Si scese anche a manifestazioni muscolari», ricordava in un filmato Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, evocando le frequenti scazzottate: «Possibile che si debba arrivare alla mischia fisica?». Così si rivolse a De Gasperi chiedendo di spegnere gli incendi. Lo stesso Scalfaro sottolineava quanto accese erano, per esempio, le disquisizioni sull’articolo 2 e sulla richiesta ai cittadini dell’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Aggiungendo, però, che tutte le diatribe nel giro di poche ore erano state superate. «La stessa Aula che la mattina aveva visto manifestazioni d’intolleranza, il pomeriggio scriveva con una mano sola il dettato costituzionale», spiegava il politico della Dc.
Proprio così: con il passare dei mesi, dopo le baruffe, si tendeva sempre più spesso a trovare la sintesi e a mettersi d’accordo. Lo confermano i protagonisti di quelle impegnative giornate: di frequente la sera a cena nella modesta trattoria capitolina di via del Bufalo, ricordava il membro della Costituente Paolo Rossi, «sulla carta che fungeva da tovaglia si annotavano a matita i principi costituzionali su cui si poteva realizzare la massima convergenza».
La sintonia divenne notevole: persino un successo ottenuto a scapito della controparte non veniva considerato tale. La Dc, dopo la feroce contesa con il Pci che spaccò anche il fronte della sinistra, riuscì a far passare, col sostegno di Togliatti, la formulazione dell’articolo 7: «Le relazioni tra Stato e Chiesa restano regolate dagli Accordi Lateranensi». I vincitori furono entusiasti? Per nulla: «Quando fu proclamato il risultato non applaudirono neppure i democristiani che lo avevano tanto voluto», commentò Calamandrei.
Forze politiche così diverse (e la diversità si accentuò dopo il passaggio del Pci all’opposizione del governo di De Gasperi) superarono tante barriere e procedettero all’unisono anche nelle vicende più marginali, ascoltando le ragioni degli avversari: «Caro Presidente, pur nella gravosa complicazione degli affari politici di oggi», scriveva Terracini a De Gasperi, «ti segnalo la questione del nuovo stemma della Repubblica italiana».
Per il bene comune
Cos’era accaduto? Nel corso dei lavori della Costituente era stato bandito un concorso per sostituire il fregio del Regno d’Italia. Lo aveva vinto il designer torinese Paolo Paschetto con un bozzetto che i giornali definivano malignamente «una tinozza». I cattolici esigevano inoltre la croce nel simbolo, i comunisti invece la falce e martello: il presidente del Consiglio si dimostrò sensibile alla sollecitazione, varò una nuova gara e su 197 progetti rivinse Paschetto ma con un nuovo stellone «condiviso» e apprezzato da tutti.
Si perseguiva l’obiettivo del «bene comune», dice oggi Amato. Lo scopo era arrivare velocemente in porto e garantire agli italiani quei diritti che non avevano mai avuto, come la libertà e l’uguaglianza senza distinzione di sesso o di censo. E anche il diritto alla solidarietà sociale. Si agiva condizionati dal timore che «un bastimento quando va a fondo porta a fondo tutti», chiosò Calamandrei. Ma anche spinti dalla convinzione che «la Costituzione è la carta della libertà, la carta della dignità di un uomo».