Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 22 Venerdì calendario

Daphne Caruana Galizia: in morte di una giornalista

Domenica 15 ottobre 2017 “Genna ta Gonna”. Il Paradiso dei giardini. Floriana. Isola di Malta.
Quella mattina era felice, Daphne. O, almeno, dava l’idea di esserlo. Ignorava la sua condanna a morte e il tempo che le restava da vivere: 24 ore. Perché così avevano deciso i suoi carnefici. Era con Peter, suo marito. Un avvocato civilista piuttosto noto. Un tipo mite, dai modi gentili, e, soprattutto, anticonformista, anche nel vestire. L’aveva conosciuto a 20 anni e non si erano più separati. Da tempo, ormai, le domeniche erano di nuovo soltanto loro. Di lei, di Peter, dei loro cani. Da quando i loro tre ragazzi, Matthew, 31 anni, Andrew, 30, Paul, 28, si erano fatti giovani uomini e si erano chiusi la porta di casa alle loro spalle. Matthew aveva scelto il giornalismo, come lei. Meglio sarebbe dire, il “suo” giornalismo. Che lo chiamassero pure “investigativo”. Per lei era e restava semplicemente quello della seconda domanda.
Quello che indaga il Potere. Che insegue le tracce che il denaro lascia. Che non si arrende di fronte alla prova negativa perché – come lei ripeteva spesso – «l’assenza della prova non significa la prova dell’assenza». Andrew, invece, era entrato nel corpo diplomatico. Mentre Paul faceva ricerca universitaria a Londra. Già, è così quando i figli vanno via. Si ritorna in due. E lei – come raccontava all’amica Petra – era felice di avercela fatta. Che lei e Peter fossero riusciti a tenere insieme matrimonio e famiglia.
Daphne telefonò a Corinne, una delle sue tre sorelle. Le raccontò dov’era. A Floriana, borgo a pochi chilometri dalla Valletta. Dove la settima edizione della festa “Genna ta Gonna”, “Il paradiso dei giardini”, trasmetteva un’allegria contagiosa. Il convento dei cappuccini, la torre della chiesa di san Publio, il primo vescovo di Malta, il labirinto dei giardini segreti lungo i bastioni.
Fu l’ultima volta che Corinne ascoltò la voce di Daphne. «Mi disse che aveva comprato dei semi di alcuni alberi che crescono soltanto su questa isola – ricorda con Repubblica – e voleva piantarli nel giardino di casa. Il posto che amava di più.
Aveva lo stesso umore disteso, felice, della sera precedente.Quella in cui ci siamo viste per l’ultima volta. Eravamo andate a trovare i nostri genitori e mi aveva raccontato che aveva passato la giornata con due dei suoi ragazzi a scrostare la vernice dal muro dell’appartamento in cui uno dei due è andato a vivere. Daphne amava la normalità delle piccole cose. Sentirsi ed essere madre. Passare tempo nel suo giardino».
Forse perché ci era cresciuta, in un giardino. Quello sul retro della casa dei genitori, a Silema. «O forse – chiosa Corinne – perché il giardinaggio non solo è un’arte silenziosa. È un rifugio dalla bruttezza, dal male che racconti ed assorbi facendo giornalismo come lei lo faceva». Non che Daphne ne facesse mistero. Perché se c’era una cosa che amava quanto e più del suo blog, quello che le era costata la condanna a morte, era il mensile “Taste&Flair”, Gusto e Olfatto. Lo aveva fondato nel 2004 e lo pensava ed editava praticamente da sola. Un magazine di successo che raccontava la cucina, la casa, i viaggi, il design, il giardinaggio. Un altro racconto del mondo che le consentiva di finanziare, sul blog, un giornalismo che nessun quotidiano, nessuna tv le avrebbero lasciato fare. Il Bello non solo come rifugio. Ma come leva per scardinare il Brutto.
Domenica 15 ottobre 2017. Grand Harbour.
La Valletta. Isola di Malta
Al molo di Grand Harbour, il grande porto naturale della Valletta, da qualche ora, aveva ormeggiato una delle tante navi da crociera che si avvicendano nell’isola dodici mesi l’anno, sette giorni su sette. Un palazzo galleggiante che saliva per venti metri dalla superficie dell’acqua. Chiudeva l’orizzonte. Meglio, quel che ne restava. E in fondo era coerente con il contesto. Perché terra o mare faceva poca differenza. Malta è il paese delle gru. Costruiscono ovunque, costruiscono sempre. Nei piccoli ristoranti con i tavoli al sole, scaricavano pesce fresco. Nel retro, si pulivano i ricci della loro polpa, da servire come antipasto in piccole ciotole di legno. Delle papere si contendevano sui gradoni del molo avanzi di cibo lasciati da turisti in fila indiana e ombrellino da sole diretti alla rocca della città.
La catapecchia di lamiere, un ex deposito per lo stoccaggio di patate, era a qualche decina di passi oltre l’ormeggio della nave grattacielo. Appena superata una decina di yacht che le società charter locali mettono a disposizione degli europei che fuggono il fisco. Chiusa da una cancellata mangiata dalla salsedine, mostrava il suo interno: tavolacci ingombri di bottiglie di birra e bottoni, utilizzati come per le partite a carte. L’uomo che ciondolava lì intorno continuava a fissare “Maya”, la sua barca. Un semicabinato dal lusso un po’ kitsch. Era un tipo di 55 anni. Dal fisico ancora aitante. Si chiamava George. George Degiorgio. A Malta, lo conoscevano tutti come Ic-Ciniz e all’anagrafe tributaria risultava un disoccupato. Ma nel garage della sua casa di St Paul’s Bay erano parcheggiate un paio di supercar: una Corvette bianca, una Maserati.
Accanto a George c’era un altro uomo. Della sua stessa età. Lo chiamavano “Kohhu”. Ma il suo vero nome era Vincent Muscat. Un sopravvissuto. Nel 2014, gli avevano sparato in testa. Ma non erano riusciti a mandarlo al Creatore. Di quel tentato omicidio avevano accusato un tale Jonathan Pace, ex gestore di un pub poi fallito. Lo avevano arrestato e quindi rilasciato su cauzione. Ma non era stata una buona idea per lui tornarsene a casa. Lo avevano fatto secco nel giro di qualche ora, mentre se ne stava affacciato al balcone della sua casa di famiglia a Fgura. E, naturalmente, chi fosse stato era rimasto un mistero.
George e Vincent stavano confabulando, quando vennero interrotti dalla suoneria del cellulare. Era Alfred. Alfred Degiorgio, detto “il Fulu”, fratello minore di George. Tutto stava andando come previsto: la Peugeot bianca di Daphne era a casa, i tempi sarebbero stati rispettati. Una comunicazione di pochi secondi. Poi, Alfred chiuse.
Alfred e Muscat erano amici da tempo. Diciamo che avevano “lavorato” bene insieme. Nel 2004, con Darren Debono, un pesce piccolo che si era messo a trafficare petrolio di contrabbando con la Libia e l’Italia, avevano sequestrato i dipendenti di una società dalla cui cassa si erano portati via 18mila euro tra contanti e assegni. Purtroppo, il tipo della società che avevano usato come basista se l’era cantata per uno sconto di pena e loro – Degiorgio, Muscat e Debono – erano finiti a processo. Dieci anni era durato. E quando era toccato all’«infame» testimoniare davanti al giudice, le cose erano cambiate. «Ora non ricordo più nulla», aveva detto. Così, a settembre del 2015, la faccenda si era chiusa con una bella assoluzione per mancanza di prove. Del resto, la giustizia maltese sapeva essere giusta e infallibile, come dicono da queste parti. E Alfred e George erano riusciti a portarsi a casa dallo Stato anche un risarcimento di 100 euro a testa per violazioni dei diritti umani. Gli avevano imposto un test del Dna per l’assalto a un furgone blindato. Già. Assolti e risarciti. Come nella maggior parte dei venti procedimenti che, dal 1981, avevano macchiato la loro fedina penale.
George si avviò verso “Maya”. Solo. Controllò che il Tnt, l’esplosivo che gli era stato consegnato, fosse sigillato e ben nascosto nell’intercapedine di uno dei sedili a scomparsa della barca. Diede un’ultima occhiata agli appunti che aveva annotato su un pezzo di carta: orari e spostamenti che avrebbe dovuto rispettare nelle ore successive. Si accese una sigaretta. Accese il motore. Qualche minuto e la prua di “Maya” fu oltre l’imboccatura del porto.
Dicembre 2017 Giornalismo. Giornalisti La Valletta. Isola di Malta. 
Seduta nel bar del Grand Hotel Excelsior che guarda la baia della Valletta, Petra Caruana Dingli nasconde per un attimo un sorriso dietro la tazza di cappuccino che stringe tra le mani. Lo sguardo si vela di una commozione composta. È una professoressa universitaria. Una delle amiche della vita di Daphne. Si erano sentite un’ultima volta la prima settimana di ottobre. Per darsi appuntamento a un pranzo cui Daphne non sarebbe mai arrivata. «Trovavamo sempre il tempo di vederci per mangiare insieme almeno una volta ogni settimana. Una cosa molto femminile. Io e lei da sole. Lunghi pranzi. Per raccontarci le nostre giornate, le nostre vite. Passavamo ore a chiacchierare». Petra scuote lentamente la testa. «Ci conoscevamo da quando avevamo vent’anni. E se dovessi usare un aggettivo, uno solo, direi che Daphne era una donna normale. Sì. Normale. Lo so che può sembrare strano. Ma la sua dimensione pubblica era speculare alla sua dimensione privata. Quella di normale donna di famiglia. Di moglie, di madre. L’una era il reciproco dell’altra. Era estremamente riservata, volutamente schiva. Anche per la popolarità che aveva qui sull’isola. Come se la sua dimensione pubblica non dovesse andare oltre ciò che scriveva. Si, Daphne amava la sua famiglia e la sua casa, dove passava molto anche del suo tempo di lavoro. Diciamo che se esisteva un posto a Malta dove amava trascorrere il suo tempo, ecco, quello era la sua casa».
In principio, negli anni dell’università, il giornalismo non sembrava ancora definitivamente nella vita di Daphne. Nel 1997, si era laureata in Archeologia. Quindi, un dottorato in Relazioni internazionali. E tuttavia, dice Corinne, la sorella, c’era molto in quell’esordio che annunciava ciò che sarebbe stato. E un metodo. «L’archeologia ha molto a che vedere con il modo con cui Daphne intendeva il suo giornalismo. Lei non si arrendeva mai. Un buco nella sabbia, la prova di un’assenza, per parafrasarla, era il motivo per continuare a scavare. Quando gli altri rinunciavano, lei cominciava. E non smetteva. Finché non era arrivata al fondo delle cose».
«Sì – annuisce Petra – direi che il giornalismo è sempre stato nella sua vita. Da quando studiava all’università. Il giornalismo non la abbandonava mai. Era un modo di essere. Il suo sguardo sul mondo. E nel giornalismo metteva molto di se stessa. Aveva un modo molto personale di scrivere. Era curiosa dell’umanità. Tutta. Sul suo blog scriveva di complicate triangolazioni finanziarie, di corruzione politica, di ministri e parlamentari. Ma lo faceva con la stessa passione e cura del dettaglio con cui pubblicava un post su una cosa che aveva visto in strada e che magari riguardava un modo di vestirsi, di parlare. Aveva anche una formidabile memoria che le consentiva di ricordare i nessi tra un fatto e un altro, o tra una persona e un’altra, apparentemente slegati. E questo faceva sì che anche chi non la conosceva avesse la sensazione di avere a che fare con una persona familiare. Era orgogliosa che uno dei suoi tre figli, Matthew, avesse scelto di fare il giornalista. E quando Matthew ha vinto il Premio Pulitzer per i Panama Papers, vidi Daphne felice».
Aveva cominciato a scrivere nel 1987, sul Prima donna nella storia del giornalismo del Paese a firmare non celata da uno pseudonimo. Prima donna ad avere una propriacolumn, una rubrica che la rendesse riconoscibile. Nel 1992, era stata tra le fondatrici del The Malta Independent, secondo quotidiano in lingua inglese dell’isola di cui sarebbe stata per vent’anni editor.
È in questi anni che le sue cronache del Potere assumono una forma sempre più affilata e una profondità disturbante nel contesto familista di un Paese la cui classe dirigente, divisa a metà tra Laburisti e Nazionalisti, refrattaria a qualsiasi forma di trasparenza, vive in un perenne conflitto di interesse. In cui la mano pubblica è quasi sempre funzionale, dunque servente, del tornaconto privato. O privatissimo. E dunque habitat ideale di una corruzione che si fa interstiziale.
Anche per questo, nel 2004, la decisione di Daphne di fondare il suo blog, Running Commentary, uno spazio on- line per un giornalismo che non viva all’ombra del Potere e non ne sia irrimediabilmente condizionato perché direttamente sotto il controllo dei partiti o perché naturalmente incline all’autocensura, appare come un approdo obbligato. Sicuramente coerente. Non fosse altro perché rende espliciti la solitudine e l’accerchiamento di cui Daphne porta le stimmate e a cui la costringono, oltre all’ostilità dei poteri che mette a nudo, anche il conformismo della corporazione cui appartiene.
La nascita del blog è un passo senza ritorno. Per tutti. Per Daphne. Per i suoi lettori. Per i suoi nemici. Perché sposta ancora più in alto l’asticella della sfida. E non senza conseguenze.
In una notte del 2006, mentre dorme in casa con la sua famiglia, viene dato fuoco sul retro dell’abitazione a una pila di copertoni di camion collegati a bottiglie molotov. È la risposta alle cronache con cui ha denunciato il ruolo di “Imperium Europa”, primo partito xenofobo della storia maltese, nella campagna contro le migliaia di migranti che arrivano dal nord-Africa. Soltanto due settimane prima del rogo le hanno fatto sparire il cane. E sulla massicciata della strada che porta alla sua casa è apparsa una scritta spray a lettere cubitali nere: «Daphne succhia cazzi neri».
Le era già successo che le bruciassero casa. Nel 1995. Le era già successo che si accanissero su ciò che amava. I suoi cani. Sempre in quel 1995. Quella volta, glieli avevano fatti ritrovare sgozzati sull’uscio della sua abitazione.
Le minacce sarebbero continuate. Nel 2013, Ignatius Farrugia, sindaco di una delle città dell’isola, la minaccia pubblicamente. La insegue costringendola a cercare rifugio in un convento. E, condannato a una multa poi convertita in 4 giorni di detenzione, non pagherà, né sconterà l’una o l’altra, perché graziato. Sempre nel 2013, accusata di aver scritto sul conto di Joseph Muscat, oggi primo ministro laburista, nel giorno delle elezioni politiche, viene arrestata di notte da uomini della sezione omicidi della polizia dell’isola per aver violato l’obbligo del silenzio stampa durante “il giorno della riflessione”.
Il 2013 è l’anno in cui Daphne conosce Jason Azzopardi, oggi 46 anni. È un brillante avvocato penalista ed esponente e parlamentare del Partito Nazionalista, di cui, oltre ad essere deputato da quattro legislature, è stato anche ministro. In quel 2013, il Partito Nazionalista, di cui Daphne, pur provenendo da una famiglia laburista, è, senza infingimenti, un’elettrice non partigiana, va all’opposizione. E Azzopardi incontra quella donna di cui ha sin lì solo letto le inchieste. E di cui non immagina difenderà un giorno la memoria e il diritto alla verità quale avvocato di parte civile dopo il suo assassinio. «Avevo denunciato dai banchi dell’opposizione il nepotismo in Polizia e nelle forze armate – ricorda ora Azzopardi, di fronte a una birra in un pub a poche centinaia di metri dal Parlamento – E Peter, suo marito, di cui sono amico, mi disse che Daphne era rimasta colpita dal mio coraggio. Dalle parole che avevo pronunciato in Parlamento, sostenendo, per la prima volta, e in completa solitudine che, a Malta, le fondamenta dello Stato di diritto erano irrimediabilmente minate». Nello spazio di quattro anni, i due non si incontrano più di cinque, sei volte. Ma si sentono spesso al telefono. Abbastanza per l’avvocato per comprendere che donna sia Daphne. E quali equilibri e convinzioni facciano da bussola al suo giornalismo. «Era una donna decisamente introversa. Di una naturale gentilezza. Che era poi l’esatto contrario della forza e dell’aggressività che liberava quando era dietro a una tastiera. Ogni volta che una figura pubblica o con responsabilità pubbliche la richiamava, dava la sensazione di esserne piacevolmente sorpresa. Come se quella forma di cortesia fosse già indice della trasparenza che in quest’isola lei vedeva assente nelle piccole come nelle grandi cose. Odiava il dilettantismo e l’ipocrisia. Odiava i bugiardi». E di bugiardi e di pirati Malta è la patria.
Ottobre 2017 L’Alveare La Valletta. Isola di Malta.
Oggi tocca agli appartamenti 24 e 25. Gli imbianchini hanno montato una scala a dieci gradini per raggiungere anche i soffitti. «Ogni settimana qualcuno va via. E qualcuno arriva. In genere, non è necessario fare grandi traslochi. Piuttosto, ci chiedono una rinfrescata. Qui per esempio ci hanno ordinato di tinteggiare il soffitto di verde. Mah, forse è il colore dell’azienda». “Palazzo Vincenti” è un falansterio nel centro de La Valletta, in Strait Street. Te lo ritrovi davanti all’improvviso, uscendo dalle strade sghembe che avvolgono e tagliano la città. Lo chiamano, a ragione, l’Alveare per i tantissimi, un centinaio a contare le targhe, tra studi legali e notarili che ne riempiono le stanze, il più delle volte piccole come celle. Nel palazzo, hanno sede legale migliaia di società di diritto maltese con portafoglio estero: europeo, in alcuni casi. Ma molte sono russe, azere, turche. «Malta è accogliente. E non soltanto per il sole», sorride un professionista che ha il suo ufficio in di queste stanze. Di quell’accoglienza che ai pirati piace. «Apri la tua società a Malta in tre giorni», strillano le brochure pubblicitarie impilate sui banconi dei bar. Mentre su Facebook ci sono pagine sponsorizzate per questo tipo di business che hanno decisamente più like dei locali notturni di Saint Julian, dove le spogliarelliste ballano avvinghiate a un palo.
Perché dunque conviene aprire una società proprio qui? «Malta è uno Stato dell’Unione europea. Le società sono a tutte gli effetti comunitarie. Esistono però dei vantaggi», spiega uno degli avvocati d’affari più importanti e conosciuti dell’isola. Chiede l’anonimato, nel rispetto della tradizione locale: il silenzio. «Le nostre società – continua, mostrando una di quelle brochure – offrono un alto livello di anonimato e privacy. I nomi dei funzionari di azienda appaiono negli atti pubblici ma possono essere utilizzati quelli dei funzionari nominati per dissimulare l’identità del cliente». Dunque, società europee a pieno titolo, ma a cui di europeo manca una caratteristica fondamentale: la trasparenza che consente di identificare la proprietà. Si comprende dunque perché la cosa piaccia. E molto. Piace agli imprenditori europei che non amano i ficcanaso. Piace alla criminalità organizzata. Come hanno documentato diverse inchieste della magistratura italiana, è qui infatti che la ‘Ndrangheta conserva tesori e controlla società per il gioco d’azzardo. È qui che la Mafia ha il suo principale hub per il traffico del petrolio di contrabbando diretto verso i nostri porti. Piace alle multinazionali del gaming, i colossi mondiali delle scommesse. Prova ne sia che le professionalità più richieste oggi sull’isola sono quelle di informatico e matematico. Ma al “Sistema Malta” guardano anche gli ex ufficiali del regime libico di Gheddafi, che hanno urgenza di trovare una cassaforte in cui far sparire ciò che hanno depredato durante quella stagione. Come i sanguinari dittatori africani, carichi di gemme e dollari. O i trafficanti di uomini che fanno transitare sull’isola i proventi dell’hawala, il sistema “bancario” attraverso il quale passano i pagamenti agli scafisti.
Del resto, anche a non metterci piede e a volerne respirare l’aria, basterebbero i numeri a raccontare questa piattaforma di fatto offshore e di diritto europeo nel cuore del Mediterraneo. Poco più grande dell’isola d’Elba, abitata come Bari, Malta ha iscritto nei registri della camera di commercio locale 53.247 società (controllate da 78mila proprietari) e 581 fondi di investimento. Negli ultimi dieci anni, ha drenato all’economia dell’Unione europea 8,2 miliardi di euro. E sull’isola è prevista una company tax al 35 per cento. Nominalmente meno vantaggiosa rispetto ad altri Paesi europei ( vedi l’Irlanda) ma, di fatto, ulteriormente abbattibile, dal momento che gli stranieri non residenti sull’isola ottengono la restituzione dell’80 per cento di quanto versato al fisco maltese. Denaro che dovrebbe poi essere tassato nei rispettivi Paesi dove ha sede la società o la persona fisica che controllano la compagnia maltese. Ma, anche questo, è un ostacolo per bambini. Basta battezzare Panama o qualche altro paradiso fiscale come residenza della società o delle persone fisiche controllanti e il gioco è fatto. Di tasse da pagare non resterà che una cifra intorno al 10 per cento.
Eccola l’isola dei pirati che Daphne si ostinava a raccontare.
Maggio 2017. «Se le parole sono perle, il silenzio vale di più» Scritta apparsa davanti alla casa di Daphne.
Saint Julian. Isola di Malta
Daphne incontrò Repubblica cinque mesi prima di morire. Davanti a un cappuccino, seduta in uno dei bar di Saint Julian. Quella mattina, accarezzandosi spesso i capelli, ascoltò molto e parlò poco. Chiese informazioni sul Tap, il gasdotto che bucherà l’Europa per portare il gas dall’Azerbajian fino in Italia, nella meravigliosa spiaggia di Melendugno, a pochi chilometri da Lecce. Non pronunciò mai la parola “paura”. Ma il nome che finì con il ripetere più spesso fu quello di Ilham Aliyev, il Presidente azero al quale avrebbe dedicato gran parte del lavoro di inchiesta nei suoi ultimi mesi di vita.
In quel mese di maggio, Malta sarebbe tornata alle urne di lì a poco. Per la prima volta nella storia dell’Unione europea, il Presidente di turno si era dimesso da premier del suo Paese, durante il suo mandato. E il merito, o la colpa, era di Daphne. Le sue inchieste avevano infatti inchiodato il premier laburista Joseph Muscat, un ex giornalista con ottime e importanti relazioni in giro per il mondo. Analizzando i leaks dei Panama Papers, incrociandoli con numeri e informazioni raccolte in mesi di lavoro, Daphne era arrivata a una conclusione: «Sul conto corrente di una società della moglie del nostro premier con sede all’estero – aveva raccontato sul suo blog e al tavolo di quel bar – sono arrivati un milione di dollari dalla figlia del presidente dell’Azerbaijan. E i soldi sono transitati da un conto di una banca maltese, la Pilatus Bank, dove Aliyev e i suoi ministri nascondono il loro tesoro».
Scacco matto.
Pilatus Bank è una strana bestia. Per dimensioni, è l’undicesima delle 28 banche dell’isola. Ha sede a Malta ma il portafoglio è nel cuore della City, a Londra. Ha aperto nel 2014. E l’azionista di maggioranza si chiama Ali Sadr. È iraniano ma ha un passaporto di St.Kitts e Nevis. È giovane, 37 anni, e tuttavia già di una certa esperienza. Ha gestito società e finanziarie tra la Svizzera e Hong Kong. Una di queste, la Carity, avrebbe gestito – secondo alcune inchieste giornalistiche – flussi di denaro del presidente venezuelano Hugo Chavez con alcuni manager iraniani.
La tazza di cappuccino era quasi vuota quando Daphne mostrò divertita il video di Ali Sadr che fuggiva di notte dalla sede della banca con delle valige, verosimilmente piene di documenti. Appena qualche ora prima che quelle immagini fossero registrate, sul suo blog, Daphne aveva incenerito la Pilatus Bank e la famiglia Muscat.
Il premier maltese avrebbe sempre smentito quella ricostruzione. E di quei dinieghi Daphne avrebbe sempre sorriso. Anche quella mattina: «Io ho i documenti», disse. E quei documenti parlavano chiaro. Dimostravano come il 60 per cento del capitale della Pilatus bank fosse costituito da fondi azeri. E che i maggiori azionisti fossero i figli del premier Ilham Aliyev e del ministro Kamaladdin Heydaro. Esattamente gli stessi che, in precedenza, si erano visti negare aperture di conti da altre banche, perché inseriti nelle del riciclaggio.
Solo Ali Sadr, a Malta, gli aveva spalancato le porte.«Cosa deve succedere ancora perché l’Europa finalmente si accorga di Malta e di tutta questa corruzione?», aveva chiesto Daphne salutando Repubblica di fronte a quel bar. Doveva essere un arrivederci.
Era un testamento.
Estate- Autunno 2017 47. Il morto. La Valletta. Isola di Malta.
Nella Smorfia napoletana c’è la traccia di una raggelante corrispondenza della Cabala. Quarantasette è il numero che indica il “Morto”. E «Quarantasette – racconta oggi Corinne Vella – erano il numero di cause con cui era stata aggredita mia sorella per provare a piegarla. Si, quarantasette erano le cause pendenti il pomeriggio che l’hanno fatta esplodere nella sua macchina. E poiché nel diritto maltese non esiste la figura della lite temeraria, non esiste una soglia di sufficienza probatoria per promuovere un’azione civile o penale, non c’è dubbio che la frequenza con cui Daphne è stata fatta oggetto di azioni legali dimostra un disegno premeditato per farla tacere».
Già, perché prima del tritolo, e dopo le intimidazioni del fuoco e della vernice spray, erano arrivate le carte da bollo. Quarantadue cause civili e cinque penali. Per lo più promosse da esponenti del governo laburista dell’isola o da persone vicine o comunque legate all’esecutivo. Il solo Silvio De Bono, tra i principali finanziatori del Partito Laburista, ne aveva promosse diciannove. Rovistare nei dettagli di questa lunga e interminabile aggressione legale non fornisce ovviamente la prova dei mandanti di un omicidio. Certo, ne definisce il contesto.
Nel 2016, il ministro dell’Energia Konrad Mizzi aveva denunciato Daphne per aver documentato sul suo blog la sua relazione extraconiugale con una donna del suo staff. Aveva chiesto che il giudice fissasse un nuovo precedente. Che a Daphne, in quanto “blogger”, non fosse riconosciuto il diritto di proteggere l’identità delle proprie fonti. Un modo per metterla a tacere per sempre. Per farle terra bruciata intorno. Per farne una muta tra muti. In tribunale, per le rivelazioni sui Panama Papers, l’aveva trascinata appunto anche Joseph Muscat, come abbiamo visto. Che per altro l’aveva definita “puttana” nell’ultimo dibattito televisivo poco prima del voto che l’avrebbe riconfermato primo ministro.
Muscat aveva fatto qualcosa di più. Aveva denunciato anche suo figlio Matthew che sui Panama Papers aveva lavorato. E la mossa rispondeva a una logica. Tutti sapevano che i figli, suo marito Peter, la sua famiglia insomma, erano il solo punto debole di quella donna. Perché nell’equilibrio e nella serenità della sua famiglia, Daphne aveva la sua forza. Non erano stati risparmiati, dunque, gli uomini di casa. Di Matthew, il giornalista, si è detto. Ma subito dopo la rielezione di Muscat e la vittoria del Labour era toccato ad Andrew, il diplomatico. Con sole due settimane di preavviso, lo avevano richiamato in fretta e furia e senza alcun motivo da Nuova Delhi, dove prestava servizio per murarlo vivo in un ufficio del ministero degli Esteri senza alcun peso politico o diplomatico. Quattro anni prima, nel 2013, avevano invece deciso di rompere le ossa a Peter Caruana, il marito di Daphne. La “Financial Intelligence Analysis Unit”, l’Agenzia antiriciclaggio maltese, aveva avviato un’indagine specifica sui clienti dello studio legale di cui Peter è socio, la “Bcgl Advocates”. Mentre a lui e al suo studio erano stati revocati tutti gli incarichi professionali e di consulenza che avessero come parte il governo o enti pubblici maltesi.
Poi, nei primi mesi del 2017, era arrivato l’affondo decisivo. Quello del ministro dell’Economia Chris Cardona. Daphne ne aveva documentato sul suo blog le frequentazioni di un bordello in Germania. Lui aveva risposto non solo con una causa per diffamazione, ma con un’iniziativa che non aveva precedenti nella storia giudiziaria maltese. Aveva proceduto con il sequestro preventivo e conservativo di tutti i conti correnti bancari intestati o riferibili a Daphne. Sollecitato, il Consiglio di Europa aveva segnalato l’iniziativa come una seria minaccia alla libertà di stampa. Il governo maltese, per tutta risposta, aveva liquidato il richiamo definendo Daphne una “hate blogger”, una blogger dell’odio, e confermando il congelamento di quei depositi bancari. Che tali sarebbero rimasti fino al giorno della sua morte.
Ma era anche accaduto dell’altro. Nell’isola in cui trovano rifugio i grandi evasori d’Europa, il Fisco aveva aggredito Daphne in modo sistematico e implacabile. Tra il 2013 e il 2017, con quattro diversi procedimenti, le era stata contestata un’evasione dell’Iva per 1 milione e 300 mila euro. E a farlo era stato Ivan Portelli, direttore delle Operazioni dell’agenzia fiscale. Un tipo licenziato dalla polizia di Malta per il suo coinvolgimento in una rapina. Legato – come Daphne aveva documentato nel suo blog – a quel Silvio De Bono grande finanziatore del Partito Laburista e sua controparte, come abbiamo visto, in ben 19 cause civili e penali.
Jason Azzopardi, l’avvocato della famiglia Caruana Galizia, scuote lentamente la testa. «È evidente – dice – che i mandanti dell’omicidio di Daphne vadano cercati tra i suoi nemici. Ed è altrettanto evidente che per sapere chi fossero i suoi nemici basta fare due cose. Scorrere l’archivio del suo blog e guardare chi le ha reso la vita impossibile aggredendola sistematicamente per ridurla al silenzio. Pensavano di spezzarla. E invece Daphne ha avuto coraggio. È andata avanti. Non si è fermata. Ha avuto il coraggio che io non ho avuto…». Azzopardi abbassa improvvisamente le palpebre. Trattiene il pianto. «Sì. Io, il pomeriggio del 16 ottobre, non ho avuto il coraggio di andare sul ciglio della strada dove avevano fatto scempio di Daphne. Di affacciarmi sulle lamiere incandescenti di quella macchina. E non me lo perdono…».
Domenica 15- Lunedì 16 Ottobre 2017. Notte. Triq il Bidnija. Isola di Malta
Era buio pesto. Le due del mattino passate. Alfred Degiorgio aveva lasciato la sua auto a qualche centinaio di metri di distanza dalla casa di Daphne a Triq il Bidnija. La strada era poco illuminata. E per sua fortuna anche poco trafficata. Nei cinque minuti di cammino necessari a raggiungerla, non aveva incrociato nessuno. Aveva proceduto a testa bassa, una sigaretta nella mano destra. Poco prima di una piccola discesa, accanto a una villa annunciata da vasi di fiori gialli all’ingresso, aveva fatto un ultimo tiro e buttato il mozzicone sul terriccio, calpestandolo per spegnerlo. Non abbastanza per cancellare le tracce di Dna della sua saliva. Ma quanto questo avrebbe pesato, quella notte, non poteva immaginarlo.
Alfred mosse ancora qualche passo e si trovò di fronte quello che cercava: la casa di Daphne. La Peugeot bianca, presa a noleggio, e rientrata dall’officina il 25 settembre, era parcheggiata all’esterno del cancello. Le avevano dato una macchina provvisoria. Qualche giorno ancora e le avrebbero consegnato una nuova auto, che avrebbe potuto guidare per i successivi cinque anni, perché questa era la durata del contratto che aveva firmato.
La Peugeot non era dove doveva essere, pensò Alfred. Nei sopralluoghi compiuti nei giorni precedenti, avevano potuto verificare come Daphne parcheggiasse sempre all’interno del cancello. Non potevano prevedere che la macchina, la sera precedente, era stata usata da Matthew, il figlio di Daphne, e che era stato lui a parcheggiarla lì. Meglio così. Non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di saltare la recinzione.
L’involucro di Tnt era nella tasca della giacca. In un’altra, un Gsm module device, una scheda sulla quale avevano montato un impianto di un cellulare. Era un innesco a distanza. Una volta collocato l’esplosivo, per farlo detonare sarebbe bastato un sms. L’orologio segnava le 2.41 esatte. Alfred azionò la scheda cellulare che era stata attivata all’alba di quello stesso giorno. Quindi, passò al tritolo. Aprì le porte con una diavoleria che consentiva di sbloccare e ri-bloccare la chiusura centralizzata delle portiere senza lasciare tracce di effrazione. Quindi, collocò la carica. Verificò l’accensione del telefono. Un lavoro di pochi minuti. Poi, ritornò sui suoi passi.
Alfred raggiunse la sua auto dove l’aveva lasciata. Sulla sommità di un marcato dislivello che consentiva di tenere sotto controllo l’intera zona. Si attrezzò per trascorrere sui sedili quel che restava della notte e del giorno che stava per arrivare. L’ultimo per Daphne. L’avrebbe accompagnata lui con il suo sguardo a morire. Avrebbe dato lui il segnale una volta che l’avesse vista uscire di casa e imboccare i tornanti della strada che porta verso il mare. Accese una prima sigaretta, una seconda, una terza. Altra saliva e altro Dna nella terra di Bidnija. La sua firma sullo scempio.
8 Dicembre 2017 Paura La Valletta. Isola di Malta.
«La paura? Daphne e la paura?». Petra Caruana Dingli non ha bisogno di pensarci. «Certo, Daphne ne aveva. Come ne ha ognuno di noi. La paura è un sentimento umano. È un segno di intelligenza. Ma Daphne sapeva gestirlo. E vederglielo fare era ogni volta sorprendente. Persino per me che le ero amica. Che la conoscevo bene». Petra sorride. «Direi che Daphne esorcizzava la paura. Ne parlava il meno possibile. Per carità, non faceva alcun mistero delle intimidazioni che le arrivavano. Anzi, ne scriveva e le documentava sul suo blog. Anche perché riteneva che questo fosse un modo per disinnescarle. Ma in privato, di quello che la turbava, parlava il meno possibile. Gestiva quel tipo di emozioni senza mai lasciar trasparire ansia. Sì, era sorprendente.
Ma evidentemente funzionava se penso alla serenità che riusciva a trasmettere a chi le voleva bene e le viveva accanto».
Eppure, come è stato possibile non vedere? Come è stato possibile lasciare sola Daphne?
L’avvocato Jason Azzopardi ora parla la lingua della logica e non quella delle emozioni. Per un attimo, prova a dimenticare la sua amicizia con Daphne. Prova a ragionare come avrebbe dovuto ragionare un Paese, per giunta piccolo, dove una giornalista, da vent’anni, è diventata un problema. Anzi, il Problema. «Dobbiamo essere sinceri. La morte di Daphne è stata uno shock. Ma non una sorpresa. La sua vicenda è una caso da manuale. La sua morte la conseguenza di tutto ciò che è accaduto prima. E si potrebbe raccontare così: in un Paese che ha cambiato 5 capi della Polizia in quattro anni, mangiato dalla corruzione, in cui su un Primo ministro e il suo capo di gabinetto sono emersi dettagli di operazioni e fondi off- shore, la giornalista che denuncia tutto questo non viene protetta. Anzi. Viene insultata e denunciata. Definita un profeta di odio. La storia di Daphne è la storia di Malta».
Alle 14.30, Daphne aveva postato un’ultima considerazione. «Ci sono corrotti ovunque. La situazione è disperata». Poi aveva preso le chiavi dell’auto. La Peugeot bianca si era quindi lasciata alle spalle il cancello ed aveva avuto il tempo di fare solo poche curve. Centosette secondi. Quello necessario ad Alfred per comunicare al fratello George che il momento era arrivato.
Nello specchio d’acqua di fronte al Grand Harbour, George, alla fonda con la sua barca, sfilò dalla tasca il telefono gsm dedicato che aveva appena ricaricato. Inviò l’sms.
Daphne non era più un problema.
“Maya” rientrò in porto. George si liberò del cellulare come aveva fatto altre volte. Lasciandolo scivolare sul fondale basso e sabbioso dell’ormeggio. Alle 15.30, mandò un messaggio alla moglie. «Apri una bottiglia di vino per me, piccola». Qualche ora dopo, chiamò un amico: «Sono stato a pesca, oggi. Ho preso due pesci grossi».
Paul, il più giovane dei figli di Daphne, prese la parola nel silenzio assoluto. «Parlo oggi perché sono il figlio di una giornalista assassinata. Ma non è soltanto dell’omicidio di mia madre che voglio parlare. Saremmo in ritardo, troppo in ritardo, se parlassimo solo dell’omicidio di mia madre. Dico questo perché prima di essere assassinato, un giornalista viene aggredito. Fisicamente, psicologicamente, moralmente. E l’impunità sta in questo. Veronica Guerin, giornalista, aveva ricevuto numerose minacce di morte, erano stati esplosi due colpi di pistola contro la sua abitazione, le avevano puntato un’arma alla testa, sparato a una gamba. Poi, è stata uccisa. Anna Politkovskaya: aveva ricevuto numerose minacce di morte, era stata arrestata, aveva subito finte esecuzioni, era sopravvissuta ad un avvelenamento. Poi, è stata uccisa. Daphne Caruana Galizia: aveva ricevuto numerose minacce di morte, subito attentati incendiari, 47 azioni legali, 47. I suoi conti erano stati congelati, era stata arrestata e perseguita fiscalmente. Ebbene, le minacce di morte, gli attentati incendiari alla nostra casa non hanno avuto responsabili. Le cause contro mia madre restano in piedi. Le sono sopravvissute».
Paul fece una breve pausa. Quindi riprese a parlare: «Il pomeriggio del 16 ottobre, uscendo di casa per l’ultima volta, mia madre era diretta in banca. Aveva bisogno di accedere ai conti correnti che le erano stati congelati dal Ministro dell’Economia. Non è mai arrivata in quella banca. Ha avuto appena il tempo di lasciarsi alle spalle la nostra casa. È morta senza poter avere accesso al suo denaro. E ora, noi, i suoi figli ed eredi, lottiamo in tribunale contro il Ministro dell’Economia di Malta perché quel denaro venga liberato. Anche questa si chiama impunità». «I giornalisti vengono uccisi per ciò che scrivono. E ciò che scrivono gli sopravvive. Esattamente come la loro reputazione e credibilità. Ebbene, chi aggredisce i giornalisti in vita ha le stesse ragioni per farlo una volta che sono morti. Perché questo è utile a minarne la reputazione, a distruggerne la credibilità, a cancellarne la memoria. Il marito di Anna Politkovskaya, una volta disse che ciò che lei faceva non era giornalismo, ma dare un allarme di giustizia. La fine dell’impunità dei crimini commessi contro giornalisti significa una cosa sola: che sarà necessario che diano l’allarme una sola volta e non pagando con la morte».
Paul fissò ancora la platea: «Quando quegli allarmi suonano, non suonano per i giornalisti. Suonano per tutti noi. L’impunità di chi minaccia o uccide giornalisti è un nostro problema, non loro. Ogni ferita inflitta a un giornalista è una ferita a ciascuno di noi e si trasforma nel tempo in una perdita che siamo in grado di avvertire solo quando è troppo tardi. Ed è questa la strana cosa che accade quando muore un giornalista. Che il senso di perdita collettivo supera quello individuale. I giornalisti perdono le loro vite. Noi che gli sopravviviamo, perdiamo il nostro diritto a sapere, a parlare, a imparare. Né l’impunità di chi minaccia e aggredisce i giornalisti sono semplicemente un attacco alla libertà di stampa e di espressione. Perché la libera circolazione della conoscenza dei fatti, delle opinioni, crea società più libere e consapevoli. Più ricche e resilienti. Detto altrimenti, società in cui vale la pena vivere».
Girò le cartelle del discorso che aveva di fronte. Proseguì: «L’organizzazione “Committee to Protect Journalists” ci dice che, negli ultimi 25 anni, il più pericoloso assassino di giornalisti non è stata la guerra. Ma la politica. Sono stati uccisi più giornalisti impegnati a raccontare il Potere nei loro paesi di quanti viaggiavano in unità militari a Kandahar o scrivevano delle barbarie in Siria. Se poi aggiungiamo le cronache della corruzione a quelle del Potere e della politica avremo in questa particolare categoria i due terzi di tutti i giornalisti assassinati negli ultimi 25 anni. Due terzi! E la cosa peggiore, quindi, è che se ti occupi di corruzione e politica e vieni ucciso, le persone su cui hai indagato saranno le stesse che condurranno o interferiranno nelle indagini sul tuo omicidio».
Paul si avviò alla conclusione. Scandendo le parole: «Quando i giornalisti suonano l’allarme, proviamo ad ascoltarli attentamente. E facciamo qualcosa. Prima che li ammazzino. Grazie».