la Repubblica, 20 dicembre 2017
Sono il killer di Spelacchio
Confesso: sono l’assassino di Spelacchio, sono io il killer dell’innocente abete rosso che dal primo dicembre disadorna piazza Venezia a Roma e agonizza sotto gli occhi del mondo. Quando vidi quel giorno la prima foto del povero albero calato dalla gru in tutta la sua miseria arborea esaltata dal confronto con la magniloquenza retorica dell’Altare della Patria sparai un tweet a freddo e lo definii “Spellacchio”. Era un errore di ortografia, un “misspelling” (o “mispellacchio”?) perché un giornale che raccolse l’idea mi fece subito notare che si scrive con una “elle” sola, ma il danno era fatto. Quell’albero, da simbolo della gioiosa, forzata, artefatta, pallosissima festosità natalizia istituzionalizzata, era diventato, per la fortuita potenza di una definizione rimpallata nell’immensa caverna dei social, il monumento all’inettitudine di un’amministrazione comunale e alla tristezza del Natale romano 2017.
Una battuta, non importa se divertente o fiacca, una definizione, anche se ortograficamente scorretta, attecchisce e cresce, a differenza del povero Spelacchione stroncato, se coglie qualche cosa di immediato e di vero nel bersaglio. Il famoso “abatino” (non “abetino”, attenzione) inventato da Gianni Brera per definire il grande Gianni Rivera, divenne virale, prima che la parola virale diventasse virale, perché il numero 10 del Milan era effettivamente un po’ fragilino, un po’ monacale nel suo mistico talento. Il Gargamella affibbiato crudelmente da Beppe Grillo a Pierluigi Bersani restò appiccicato all’allora segretario del Pd perché una certa somiglianza fisica con il cartoon era evidente, seppure non offensiva visto che lo stesso Gargamella ora si dice pronto ad affiancare eventualmente chi lo aveva trattato da puffo.
Spelacchio ha funzionato e ha fatto il giro del mondo per un motivo semplice: perché quell’abete piangente (nuova specie botanica) è realmente un enorme scovolino da pipe, la lisca di un pesce divorato da un gattone ciclopico, un gigantesco e costoso scopettino da water da 49 mila euro pagati dai contribuenti romani, una vergogna in più per una Capitale che molto ha di che vergognarsi, fra passato e presente.
Con grande fatica di traduzione è rimbalzato nei lanci dell’agenzia Rt, Russia Today, emanazione del Cremlino, che implacabilmente me ne attribuì la paternità – a Putin non sfugge niente – nelle edizioni online di quotidiani indiani, su siti australiani, sulla dignitosissima ed equilibrata National Public Radio americana, l’unica rete pubblica Usa, sull’Ansa italiana, su catene di blog e siti, raccogliendo migliaia e migliaia di “mi piace”, di pollicioni eretti o versi, di insulti, di accuse e difese e di pietistiche conversioni. Secondo una classica reazione umana, il mio Spelacchio da bersaglio di ludibrio ha cominciato a suscitare pena e poi simpatia. È arrivato, con un po’ di cattivo gusto, “Je suis Spelacchio”, nuova versione del “Je suis Charlie” nato dopo la strage nel settimanale satirico francese. Non mancano proposte di adozione, forse per far legna, vista la ormai totale irrecuperabilità delle spoglie.
Se mai un pm, un giudice, mi dovesse chiamare a rispondere dell’arboricidio morale del triste abete, oggi disconosciuto anche da chi lo ha ordinato e pagato sprecando quasi 50 mila euro secondo il collaudato principio della “colpa è sempre di un altro” subito adottato dal Comune di Roma, chiederò il rito abbreviato per pentimento e mi dichiarerò pronto a collaborare con la giustizia.Spelacchio era innocente, Vostro Onore. I colpevoli siamo noi, sono io. Con il concorso esterno di chi lo ha esposto al costoso ridicolo di una piazza crudele come piazza Venezia. Luogo fatale per governanti, dittatori, dilettanti della politica e ora per gli incolpevoli abeti della Val di Fiemme.