Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 22 Venerdì calendario

Così Trump ci sfida sulle tasse

Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un’ampia riforma fiscale, la più radicale dopo quella varata dal presidente Reagan trentacinque anni fa. Per l’Europa l’aspetto che più conta è la forte riduzione delle imposte sulle imprese, oltre ad alcuni cambiamenti che favoriranno il rientro negli Usa di capitali oggi investiti all’estero grazie alla cancellazione di norme che lo penalizzavano. Il costo per unità di prodotto delle imprese esportatrici americane scenderà. Certo, il deficit federale salirà, e di molto, nonostante Trump lo neghi, anche perché gli Stati Uniti dovranno spendere molto di più per migliorare infrastrutture pubbliche fatiscenti. Ma di questo si occuperà il prossimo presidente. Come deve rispondere l’Europa? Protestare, come hanno fatto giorni fa cinque ministri dell’Economia europei (Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna) minacciando di ricorrere all’Organizzazione internazionale del commercio perché la riforma ne violerebbe le regole, non serve a nulla: è solo fumo negli occhi per gli elettori europei. Quell’organizzazione non ha alcuna autorità sulle politiche fiscali di un Paese tranne in presenza di palese protezionismo: questo non è certo il caso. E infatti il presidente degli Stati Uniti e il Congresso non hanno tenuto in alcun conto quella protesta formale. Ciò che l’Europa invece deve fare è ridurre le imposte su lavoro e profitti e aumentare la produttività.
La Germania può permettersi di ridurre le imposte: ha un avanzo di bilancio, il suo debito scenderà il prossimo anno al 60% del Pil e il suo tradizionale rigore fiscale le garantirà tassi di interesse bassi ancora a lungo. Nei mesi scorsi Berlino si chiedeva se spendere il proprio avanzo di bilancio (1% del Pil nel 2018) costruendo infrastrutture oppure tagliando le tasse. Questa scelta era stata argomento di discussione fra Parigi e Berlino: Macron spingeva per più infrastrutture, evidentemente preoccupato di non potere seguire la Germania qualora questa avesse deciso di tagliare le tasse sulle imprese rendendole ancor piu competitive rispetto a quelle francesi. 
Ora la scelta della Germania è obbligata. Per non perdere investimenti da oltre oceano e competitività dovrà destinare almeno una parte dell’avanzo di bilancio ad un taglio delle imposte sui profitti. 
Per Paesi, come Francia e Italia, che non hanno spazio per tagliare le tasse – almeno finché non cominceranno seriamente a tagliare le spese, e le promesse che un po’ tutti i partiti italiani stanno facendo in vista delle lezioni non promettono bene – per non perdere investimenti americani e competitività con le esportazioni Usa rimane solo la strada di un aumento di produttività.
Da oltre un decennio la produttività in Italia è stagnante. I perché sono tanti. Ma soprattutto vi è una divergenza sempre maggiore fra settori in cui la produttività cresce, talvolta più che in Germania, e settori in cui è ferma, o scende, come nei servizi professionali e nelle imprese dove l’azionista maggiore è un ente pubblico: il Comune, la Regione o lo Stato. Se nella nostra economia la produttività fosse stagnante dappertutto, ci sarebbero poche speranze. Invece, proprio perché alcune imprese stanno andando a gonfie vele ciò che bisogna fare è spostare risorse dai settori stagnanti a quelli in cui la produttività cresce. Cominciamo ad esempio ad eliminare un po’ di leggi che obbligano le imprese ad acquistare servizi professionali inefficienti, a cancellare norme burocratiche che ostacolano l’ingresso nel mercato di nuove imprese e il trasferimento della proprietà di un’azienda pubblica a privati.
Fabiano Schivardi e Francesco Lippi («Corporate Control and Executive Selection», 2013) studiando un campione di 1.200 imprese manifatturiere italiane medio-grandi (costruito partendo dall’indagine della Banca d’Italia sulle imprese manifatturiere a partire dall’inizio degli anno ‘90) trovano che la produttività del lavoro è significativamente più bassa nelle aziende in cui il controllo è esercitato da un ente pubblico. La differenza di produttività è del 10% circa. Se è il 10% nelle aziende pubbliche del manifatturiero immaginiamoci quanto sarà in aziende di servizi municipali! 
Il motivo che gli autori individuano è la qualità inferiore del management di queste, probabilmente effetto di assunzioni decise più in base al clientelismo che al merito. Trasferirne la proprietà dal pubblico a privati aumenterebbe la produttività media di tutta l’economia. 
Alle privatizzazioni si oppongono lobby potenti, in primis i politici che non vogliono perdere il controllo sulle ex-municipalizzate (e il consenso politico che esse portano). La scossa che arriverà con la grande riforma fiscale di Trump potrebbe essere l’occasione per abbatterne il potere.