Corriere della Sera, 22 dicembre 2017
Il peso insostenibile del debito pubblico
In questi giorni prenatalizi pochi osservatori hanno notato un fatto importante avvenuto sui mercati finanziari europei: il tasso d’interesse sui titoli di Stato portoghesi a 10 anni è sceso sotto il livello del Btp italiano. La stessa cosa era avvenuta nei mesi scorsi per i titoli di Stato spagnoli e ciprioti. Di fatto, il debito pubblico italiano viene oramai considerato più rischioso di quello degli altri Paesi europei, inclusi quelli che durante la crisi avevano chiesto il sostegno finanziario della Troika (esclusa la Grecia).
Hanno contribuito a tale sviluppo vari fattori. Alcuni sono di natura politica, in particolare l’assenza, in Portogallo e altri Paesi, di partiti che preconizzano l’uscita dall’euro, come è invece il caso in Italia, il che scoraggia chi vuole investire nel Paese. Altri sono economici, in particolare il livello del debito pubblico.
Negli ultimi quattro anni il debito portoghese in rapporto al Prodotto lordo si è ridotto di oltre 4 punti percentuali (dal 130,6% al 126,4%). La politica di risanamento messa in atto dai successivi governi ha consentito di tagliare il disavanzo pubblico di ben 6 punti, all’1,4% del Pil previsto nel 2017. Il saldo primario – cioè al netto degli interessi sul debito – corretto per effetti ciclici, è migliorato di ben 3 punti. L’aggiustamento è avvenuto sia attraverso il taglio della spesa (del 4% in termini nominali) sia con l’aumento delle entrate (dell’8%).
Nonostante l’impostazione più restrittiva della politica di bilancio portoghese, la performance economica è stata superiore a quella italiana. Nel periodo 2014-17 l’economia lusitana è cresciuta complessivamente del 7% (contro il nostro 3,4%), grazie in particolare alle esportazioni di beni e servizi (salite in volume del 24%, contro il 15% dell’Italia) e agli investimenti (più 19% contro il 5%). Le riforme strutturali hanno favorito la riduzione del tasso di disoccupazione, dal 14% nel 2014 al 9,2% nell’anno in corso, e all’8,3% previsto nel 2018, ben sotto quello italiano.
Il risultato ottenuto dal Portogallo merita una riflessione perché è frutto di una strategia di politica economica alquanto diversa da quella messa in atto nel nostro Paese, dove si è invece privilegiato la «flessibilità» dei conti pubblici, e di fatto rinviato la riduzione del debito (che nemmeno nel 2017 è previsto scendere). Non sembra esserci piena consapevolezza, nel nostro caso, che l’elevato debito pubblico rappresenti non solo un problema per la stabilità finanziaria ma anche e soprattutto un costo per il sistema economico e un ostacolo allo sviluppo. Le condizioni di finanziamento delle aziende di un Paese tendono a riflettere il rating e lo spread sui titoli di Stato del Paese stesso. È molto difficile per un’azienda italiana avere un rating migliore, o emettere titoli a tassi inferiori, di quello dello Stato italiano. Lo stesso si applica alle banche, il cui rating riflette in parte il rischio Paese, che inevitabilmente viene scaricato sulla clientela, che si trova dunque a pagare un interesse più elevato. Le aziende italiane sono pertanto svantaggiate rispetto ai concorrenti europei.
Questa situazione non è sostenibile. In un mercato integrato e competitivo, le aziende hanno sempre più l’incentivo a spostarsi nei Paesi dove il costo di finanziamento è più basso. Ciò avviene attraverso la semplice delocalizzazione, la cessione di ramo d’azienda, oppure la fusione con aziende estere e lo spostamento della sede in un altro Paese.
Il costo del capitale non è l’unica variabile in base alla quale le imprese decidono dove investire e dove collocare la loro sede sociale. Incidono anche altri fattori, come il costo del lavoro, la produttività, l’efficienza dell’amministrazione pubblica, la rapidità della giustizia. Ma a parità di tali condizioni, un Paese ad alto debito pubblico difficilmente può rimanere a lungo attraente per chi crea impresa, e dunque posti di lavoro.
Il risanamento delle finanze pubbliche, e la riduzione sistematica e duratura del debito, non è solo una questione di stabilità finanziaria e di equità tra generazioni, è una componente essenziale di una sana politica industriale.