21 dicembre 2017
APPUNTI SULLA CATALOGNA PER GAZZETTA
IL POST –
In Catalogna sono arrivate le elezioni convocate eccezionalmente dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, le prime dopo la dichiarazione d’indipendenza approvata dalla maggioranza parlamentare catalana uscente. La campagna elettorale è stata unica nella storia recente europea. Per dirne una: dei tre principali candidati a diventare prossimo presidente della Catalogna, uno si trova in carcere preventivo e un altro è scappato a Bruxelles, accusato in Spagna di reati che prevedono fino a 30 anni di carcere. Gli ultimi sondaggi non hanno chiarito se in Catalogna ci sarà o meno una nuova maggioranza indipendentista, e i dibattiti televisivi che si sono tenuti finora non sono stati decisivi per capire quali saranno le alleanze post-elettorali.
Perché sono elezioni eccezionali
Ci sono tre date che aiutano a capire quello che è successo in Catalogna e come si è arrivati fin qui.
L’1 ottobre si è tenuto il referendum sull’indipendenza della Catalogna, convocato dal governo dell’ex presidente Carles Puigdemont e sostenuto dalla maggioranza del Parlamento catalano, ma ritenuto illegale dal governo e dalla magistratura spagnola. Quel giorno è successo un po’ di tutto: cariche della polizia spagnola ai seggi elettorali, accuse di tradimento alla polizia catalana, occupazione preventiva dei seggi elettorali. La sera stessa Puigdemont ha annunciato la vittoria del Sì, quindi del fronte indipendentista, dando inizio alla fase più acuta della crisi con il governo spagnolo.
Il 27 ottobre, dopo settimane di incertezza, il Parlamento catalano ha approvato la dichiarazione d’indipendenza, dicendo di voler applicare i risultati del referendum dell’1 ottobre. Lo stesso giorno il governo spagnolo guidato da Mariano Rajoy ha applicato l’articolo 155 della Costituzione spagnola per la prima volta nella storia della Spagna post-franchista, cioè quello che dà la possibilità allo stato di costringere una Comunità autonoma, come la Catalogna, a rispettare la legge. Rajoy ha sciolto il Parlamento catalano, ha rimosso dai loro incarichi Puigdemont e i suoi ministri e ha convocato elezioni anticipate per il 21 dicembre.
Il 30 ottobre la procura generale spagnola ha denunciato i politici responsabili della dichiarazione d’indipendenza della Catalogna, iniziando un lungo e complicato iter giudiziario con parecchi colpi di scena. I membri del governo catalano, quelli dell’ufficio di presidenza del Parlamento e i due principali leader indipendentisti della società civile sono accusati di reati molto gravi: alcuni si trovano in carcere in attesa del processo, altri hanno ottenuto la libertà pagando una cauzione, altri ancora, tra cui l’ex presidente Puigdemont, sono andati a Bruxelles dopo una specie di fuga da film, sostenendo che in Spagna non avrebbero ottenuto un processo giusto.
Le elezioni catalane di giovedì si terranno dopo tutto questo, con gli indipendentisti che accusano gli anti-indipendentisti di avere usato i tribunali per combattere la loro legittima posizione politica, e gli anti-indipendentisti che accusano gli indipendentisti di avere portato la Catalogna al disastro, sia economico che sociale. Le elezioni si terranno alla fine di una campagna elettorale molto più che atipica, fatta non solo dai tradizionali comizi nelle principali città catalane, ma anche da lettere e articoli scritti dai leader indipendentisti e dagli ex ministri ancora in carcere e dai videomessaggi e tweet di Puigdemont dal Belgio.
L’ultima stranezza è di lunedì, conseguenza del fatto che Puigdemont e gli altri ex ministri in Belgio non potranno votare alle elezioni di giovedì per non essersi registrati in tempo al consolato spagnolo a Bruxelles. Puigdemont ha scritto su Instagram che una ragazza di 18 anni gli ha “ceduto” il suo voto, nel senso che voterà secondo le preferenze politiche dell’ex presidente. Anche Toni Comín, ex ministro della Sanità del governo catalano attualmente a Bruxelles, ha annunciato una cosa simile, dicendo che un suo stretto familiare che alle ultime elezioni si era astenuto voterà secondo la sua preferenza.
I sondaggi: indipendentismo vs anti-indipendentismo
Alle elezioni si presentano sette forze politiche, nessuna delle quali – quasi certamente – otterrà più del 30 per cento dei voti. Stando ai sondaggi realizzati finora, i partiti che si giocheranno la vittoria sono tre: Esquerra Republicana (ERC), sinistra indipendentista guidata dall’ex vicepresidente Oriol Junqueras, oggi in carcere in attesa di processo; Junts per Catalunya (JxCat), lista guidata da Puigdemont e sostenuta dal partito indipendentista di centrodestra PDeCAT; e Ciutadans, sezione catalana di Ciudadanos, partito di destra anti-indipendentista che ha guadagnato moltissimi consensi dal 2015, quando si erano tenute le ultime elezioni catalane. È difficile fare previsioni più precise, anche perché per legge da sabato scorso i giornali spagnoli non possono più pubblicare i sondaggi.
Secondo un sondaggio pubblicato dal Periodico il 14 dicembre, e realizzato dal Gabinet d’Estudis Socials i Opinió Pública (GESOP), ERC sarebbe in testa con oltre 30 seggi, ma negli ultimi giorni potrebbe avere perso qualcosa. Domenica il quotidiano scozzese National ha pubblicato un altro sondaggio che dice che la distanza tra ERC, Ciutadans e JxCat si sarebbe ridotta, tendenza confermata anche da un sondaggiopubblicato ieri sul Periòdic d’Andorra.
ERC e JxCat potrebbero cercare di formare un nuovo governo indipendentista con l’appoggio esterno della CUP, partito di sinistra radicale: per avere la maggioranza parlamentare, i tre dovrebbero ottenere almeno 68 seggi, risultato che i sondaggi dicono essere improbabile ma possibile.
Sull’altro fronte le cose sono più complicate. Ciutadans potrebbe ottenere l’appoggio del Partito Popolare catalano (PPC) – che comunque sembra avere perso molti consensi rispetto alle elezioni del 2015, passando da 11 a 6-7 seggi – e poco altro. La seconda forza politica del fronte anti-indipendentista, il Partito Socialista catalano (PSC), non sembra intenzionata a sostenere un possibile governo di destra guidato da Ciutadans, anche se finora le accuse reciproche tra loro in campagna elettorale sono state poche. Di certo Ciutadans non otterrà l’appoggio di Catalunya en Comú (CeC), che semplificando si può definire il Podemos catalano, partito di sinistra anti-indipendentista ma favorevole a un referendum sull’indipendenza della Catalogna concordato con lo stato spagnolo. Il leader di CeC, Xavier Domènech, ha già scartato l’ipotesi di un’alleanza post-elettorale con qualsiasi forza politica di destra, quindi sia Ciutadans che JxCat.
Un candidato da tenere d’occhio è Miquel Iceta, leader dei Socialisti catalani. Stando ai sondaggi Iceta non ha alcuna possibilità di vincere le elezioni, ma qualche settimana fa si era parlato di lui come possibile nuovo presidente catalano. Nel caso in cui non si riuscissero a formare maggioranze parlamentari dopo il 21 dicembre, alcuni partiti politici di destra e di sinistra potrebbero decidere di astenersi nel voto di fiducia sul nome di Iceta, di fatto aprendo la possibilità di un governo di minoranza (molto di minoranza) del PSC, quindi anti-indipendentista. Per il momento è un’ipotesi di cui si è parlato solo sui giornali e che va presa come tale: è un’eventualità, comunque, che di recente potrebbe avere perso forza, viste le difficoltà del PSC registrate negli ultimi sondaggi.
In caso di vittoria indipendentista, chi sarebbe il nuovo presidente?
È molto difficile dirlo ora, e non solo perché i sondaggi non mostrano un chiaro vincitore delle elezioni. Uno dei problemi è che i candidati di ERC e JxCAT, Oriol Junqueras e Carles Puigdemont, non sembrano oggi nelle condizioni di insediarsi a capo di un futuro governo indipendentista. Junqueras è stato incarcerato in via preventiva, in attesa del processo, e finora i suoi tentativi di uscire di prigione con il pagamento di una cauzione non sono andati a buon fine. Puigdemont è in Belgio dalla fine di ottobre, e nonostante il mandato di arresto europeo a suo carico sia stato ritirato da un giudice spagnolo, se dovesse tornare in Spagna verrebbe immediatamente arrestato.
ERC e JxCat stanno affrontando questa situazione in maniera diversa: ERC ha preparato un piano B, ipotizzando un governo guidato da Marta Rovira, la numero 2 del partito; JxCat invece ha preferito puntare tutto su Puigdemont, che è ancora molto popolare tra gli indipendentisti catalani. Quella di JxCat è stata in parte una scelta obbligata: Puigdemont ha convinto il suo partito – il PDeCAT, in crisi profonda da tempo – a lasciargli carta bianca alle prossime elezioni, facendo una lista a suo piacimento, che senza di lui probabilmente non arriverebbe nemmeno al 10 per cento dei voti. Finora, comunque, sembra avere funzionato meglio la strategia di JxCat, che nel giro di poche settimane ha guadagnato parecchio, sottraendo molti voti a ERC e provocando diverse tensioni interne al fronte indipendentista. Negli ultimi giorni Puigdemont ha anche detto di avere intenzione di tornare in Catalogna nel caso in cui il Parlamento gli votasse un’altra volta la fiducia, nonostante la certezza di essere arrestato.
E dopo?
L’incertezza del risultato del voto, e soprattutto delle possibili alleanze post-elettorali, rende molto difficile ipotizzare quello che potrebbe succedere dopo le elezioni. Una questione di cui si dibatte molto da settimane riguarda il futuro del cosiddetto “procés“, il processo, cioè l’ampio movimento politico e sociale iniziato tra il 2010 e il 2012 che ha come obiettivo l’indipendenza della Catalogna. Secondo alcuni, tra cui i leader dei partiti anti-indipendentisti, il procés ha fallito ed è ormai superato: il referendum sull’indipendenza è stato fatto, la Repubblica è stata proclamata ma di fatto non è cambiato nulla. Secondo altri, tra cui i leader indipendentisti, le elezioni serviranno per sancire la proclamazione della Repubblica e costringere lo stato spagnolo a negoziare l’indipendenza, o per lo meno un nuovo referendum, con il governo catalano. Per ora si sa che i due principali partiti indipendentisti – ERC e JxCat – hanno annunciato di voler fare un mezzo passo indietro e rinunciare alla via unilaterale. Per il resto bisognerà aspettare il risultato delle elezioni.
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Elezioni che - per la stampa spagnola - sono decisive per la Catalogna in bilico tra il rifiuto delle iniziative intraprese finora dal movimento indipendentista e un nuovo e impulso al processo di sovranità regionale. Tre gli schieramenti tra cui i cittadini sono chiamati a scegliere: JuntsxCat, Sinistra repubblicana di Catalogna e Candidatura di unità popolare, che promuovono l’indipendenza; Ciudadanos, il Partito popolare e il Partito Socialista operaio spagnolo, che hanno dato luce verde all’applicazione dell’articolo 155 da parte del governo spagnolo presieduto da Mariano Rajoy; e i Comuns che prendono le distanze sia dall’applicazione dell’articolo 155 che dalle mosse unilaterali del movimento indipendentista
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FRANCESCO OLIVO, LA STAMPA 21/12 –
La politica ha effetti impensabili: «Quest’anno è crollato anche il numero di biglietti della lotteria», si lamentano al chiosco del quartiere del Carmel di Barcellona. Le prime vittime di una campagna elettorale sono i numeri, ma anche al netto della propaganda c’è una certezza: l’economia catalana ha risentito dei tumultuosi avvenimenti dell’autunno. La fuga delle due banche principali della regione, la Caixa e il Sabadell, ha fatto da apripista a quasi tremila aziende che nel giro di due mesi hanno cambiato sede sociale e fiscale spostandosi in altre zone di Spagna, Valencia, Madrid o le Baleari.
Oggi si vota e alle 20, ora di chiusura dei seggi, le Borse di tutta Europa, sono in attesa. La domanda che tutti si fanno è: torneranno queste aziende se la Catalogna dovesse tornare una terra (relativamente) tranquilla? Prima bisogna sciogliere un altro dilemma, ovvero la causa di questi traslochi. I due blocchi contrapposti fanno diverse analisi: per i partiti «costituzionalisti» l’incertezza si è generata con l’avventura indipendentista. I separatisti, con diversi accenti, attribuiscono la mossa all’intervento del governo spagnolo contro la Generalitat: sospensione dell’autonomia regionale e repressione fisica degli elettori nel giorno del referendum proibito.
Il risultato è che l’economia della regione spagnola più dinamica (19% del Pil nazionale) soffre, in termini di occupazione (peggior novembre dal 2009), di investimenti stranieri (crollati del 75%, secondo il governo spagnolo), di piccolo commercio e persino di turismo. Ma se la macroeconomia dovesse risultare fredda, un dato, emerso solo una settimana fa, fa riflettere: in soli 10 giorni tra il 1° ottobre (il referendum indipendentista) e il 10 (il discorso di Puigdemont in Parlamento) i correntisti catalani hanno ritirato dai propri conti di Caixa e Sabadell circa 6 miliardi di euro, senza dare nell’occhio (le file ai bancomat sono state relative), ma con decisione. Per gli indipendentisti la fuga delle aziende è stata fomentata dal governo spagnolo, che ha, in effetti, varato un apposito decreto per semplificare il trasloco. «Ma quei soldi i correntisti li hanno ritirati per ordine di Rajoy?» si chiede ironicamente Anton Costas, imprenditore e storico ex presidente del Circolo d’economia, la principale associazione catalana, forse il miglior conoscitore dei legami tra politica e mondo delle imprese da queste parti.
Basterà un po’ più di serenità, con qualsiasi governo, per riportare a casa aziende che avevano la sede qui da sempre? I pareri sono discordi. I partiti costituzionalisti, socialisti, popolari e Ciudadanos, chiedono il voto proprio «per far rientrare le nostre imprese». Ma non sarà così facile. «Le attività legate alla finanza non torneranno – prosegue Costas - hanno clienti troppo sensibili all’incertezza. Le altre forse sì, sono andate vie per cautelarsi». Serve però un incentivo, «una manifestazione esplicita del nuovo governo di rispetto della legalità».
«Nel breve escluderei retromarce, il danno è fatto», ragiona José Carlos Díez, economista dell’università di Alcalá e volto noto della tv spagnola. Certo, non è indifferente il risultato di stasera, «una vittoria indipendentista, sarebbe una cattiva notizia per il mercato, ma per ora sembra remoto lo scenario peggiore: una nuova dichiarazione di indipendenza». In giro per Barcellona si sente ripetere: «Il peggio dovrà ancora arrivare». Díez è d’accordo solo in parte, «gli effetti di questi fenomeni vanno visti sul medio periodo, io non drammatizzerei, però è chiaro che non abbiamo visto tutto. Gli stranieri investono meno volentieri in Catalogna, chi vuole vedere i propri dipendenti litigare sul posto di lavoro per la politica?».
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FRANCESCO OLIVO, LA STAMPA 20/12 –
La Catalogna torna a votare con un’ansia di normalità: domani mattina ai seggi non ci saranno cariche di polizia, urne portate di nascosto né seggi presidiati tre giorni prima dagli elettori. L’atmosfera è più tranquilla rispetto a due mesi fa, ma i nodi non si scioglieranno presto.
Si è chiusa ieri una campagna elettorale anomala, basti dire che uno degli ultimi comizi, quello di Esquerra republicana, si è celebrato fuori da un carcere, poco di distante da Madrid, dove è rinchiuso Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat, accusato di sedizione e ribellione per aver, tra gli altri, organizzato il tentativo di secessione. Di sondaggi ne girano parecchi, quello che è chiaro è che l’indipendentismo rischia di perdere la maggioranza assoluta al parlamento catalano, ma nemmeno gli avversari dell’avventura nazionalista hanno molte possibilità di governare.
Le forze costituzionaliste, Ciudadanos, Partito socialista e Popolari, sperano di cambiare il vento e di riportare serenità nei rapporti con Madrid. Tra i contrari all’indipendenza, la più votata sarà, i sondaggi sono chiari, la formazione centrista di Ciudadanos, nata qui dieci anni fa proprio per contrastare il nazionalismo catalano. Alla guida c’è Inés Arrimadas, classe 1981, andalusa emigrata da un decennio in Catalogna, una storia di successo e in fondo di integrazione nella quale si rispecchiano tanti spagnoli venuti negli anni a vivere da queste parti. Salita rapidamente nelle gerarchie del giovane partito, Arrimadas ha già ottenuto un gran risultato nel 2015, quando Ciudadanos trionfò nelle periferie di Barcellona e nei popolosi Comuni della cintura popolati dai «charnegos», gli immigrati meridionali. E non è un caso che per il comizio finale della campagna si sia scelta una delle borgate più difficili di Barcellona, i Nou Barris. «Ci giochiamo il passaporto», dice Arrimadas con l’intenzione di mobilitare gli indecisi. Molto meno fascino, da queste parti, ottiene il Partito Popolare, al governo in Spagna e all’ultimo posto in Catalogna. Il premier Mariano Rajoy è stato ieri a Girona, la città governata da Puigdemont, da dove ha celebrato il ritorno alla normalità dopo l’intervento governativo che ha «tagliato la testa» (espressione della vicepresidente Soraya Saenz de Santamaria) agli indipendentisti. «Basta giocare alla divisione, questa è Spagna», ha detto il capo del governo. Punta sulla cintura di Barcellona (e Tarragona) anche Miquel Iceta, leader dei socialisti che sperano di essere l’elemento di mediazione tra blocchi tanto divisi.
Gli indipendentisti si presentano separati, in tre liste, con molta ambiguità sul futuro. I più vicini al successo sono i republicani di Esquerra, più indietro Junts per Catalunya la nuova formazione guidata (da Bruxelles) da Carles Puigdemont, presidente destituito che spera di essere rimesso al comando dal voto popolare, anche se un mandato di cattura gli impedisce il rientro a casa. Puigdemont è apparso anche ieri da uno schermo, acclamato da tante diverse località catalane: «Siamo il governo legittimo». In una piazza di Gracia gremita, uno dei bastioni dell’indipendentismo a Barcellona, regna l’ottimismo: «Supereremo il 50%, grazie ai tanti giovani che si sono mobilitati per la prima volta» ragiona una deputata.
Resta fuori dai blocchi En comù, la costola catalana di Podemos, guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, che potrebbe essere l’ago della bilancia di una legislatura che nasce con troppe incognite per riportare tranquillità in una terra dove prevalgono le emozioni.
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LASTAMPA.IT
Si sono aperti stamani alle 9 i seggi in Catalogna dove, fino alle 20, oltre 5.554.394 di persone sono chiamate a votare per eleggere i 135 nuovi deputati del parlamento regionale di Barcellona. Sin dal mattino lunghe code ai seggi, con una partecipazione che si prevede storica.
Le elezioni sono state convocate dal premier spagnolo Mariano Rajoy, con poteri speciali che gli ha conferito il senato di Madrid, dopo che all’indomani della proclamazione della “repubblica” catalana il 27 ottobre ha dichiarato destituiti il presidente Carles Puigdemont e il suo governo e sciolto il Parlament.
I partiti indipendentisti in campo
I separatisti si presentano in tre liste: Esquerra republicana de Catalunya, Junts per Catalunya e la Cup. La prima è guidata dall’ex vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras, attualmente in carcere, la seconda dal presidente destituito Carles Puigdemont, in “esilio” in Belgio.
I partiti costituzionalisti
Sono tre, il Partito socialista catalano, il Partito popolare e Ciudadanos, movimento centrista. Secondo i sondaggi, proprio quest’ultimo partito, guidato da Inés Arrimadas, potrebbe contendere a Esquerra Republicana il primo posti in voti. Fuori dai due blocchi c’è En Comù Podem, il movimento del sindaco di Barcellona Ada Colau, costola catalana di Podemos.
Cosa serve agli indipendentisti per vincere
I tre partiti indipendentisti che si presentano in liste separate per tornare al governo dopo la sospensione dell’autonomia devono ottenere almeno 68 seggi sui 155 del parlamento catalano. Per la maggioranza assoluta dei seggi, in virtù della legge elettorale, non è necessario avere anche quella in voti. Nel 2015 gli indipendentisti ottenero 72 seggi con il 47,8% dei voti.
I piani degli indipendentisti
Non è chiaro la road map degli indipendnetisti in caso di vittoria. Quello che si lascia intendere è l’abbandono della via unilaterale, intrapresa negli scorsi mesi e culminata con una dichiarazione di indipendenza, rimasta simbolica. Puigdemont, in caso di vittoria del blocco, chiede di tornare a occupare il suo incarico, annullato dall’intervento del governo spagnolo. Ma Esquerra, favorita nei sondaggi, vuole proporre un suo presidente. La Cup, l’estrema sinistra, propone invece di continuare la rottura radicale con la Spagna.
Gli unionisti possono ottenere la maggioranza assoluta?
I sondaggi dicono che è uno scenario difficile. In caso di mancata maggioranza assoluta degli indipendentisti, servirebbe un governo di tutti gli altri partiti, cosa assai complicata visti i molti veti reciproci. In ogni caso serve l’appoggio, o l’astensione, di En Comù, il movimento legato a Podemos, non compatibile con Ciudadanos e con il Partito Popolare.
Il tripartito
Vista la polarizzazione estrema è difficile che i due blocchi si rompano. Se dovesse succedere si potrebbe ipotizzare un governo di sinistra, formato da Esquerra Republicana, socialisti e En Comù (il Podemos catalano). Ma per nascere Esquerra dovrebbe, almeno nell’immediato rinunciare ai propositi indipendentisti.
Se non si trova un governo come se ne esce?
Esiste la possibilità di un ritorno alle urne, nella prossima primavera.
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CORRIERE DELLA SERA 21/12 –
Oggi la Catalogna vota e spera. Il «sufflé» indipendentista potrebbe sgonfiarsi o diventare ancora più acido. Molto dipende dai 5,5 milioni di elettori, ma non tutto. Se i tre partiti «costituzionalisti» che hanno appoggiato il commissariamento del governo regionale e la prigione per gli indipendentisti dovessero avere una maggioranza assoluta potrebbero accordarsi facilmente. Ma sembra difficile raggiungano i numeri necessari. Sono il Partido Popular del premier Mariano Rajoy dato al 5%, i socialisti dati sotto il 15% e i liberali di Ciudadanos sopra al 20%. Non basterebbe. Avrebbero come minimo bisogno del voto della sinistra di Podemos (in Catalogna la sigla è CeC: Catalunya en Comù-Podem) poco incline ad appoggiare la destra. Sul fronte opposto sperano nella maggioranza assoluta i tre partiti indipendentisti. JxCat dell’ex presidente Carles Puigdemont in «esilio» in Belgio è accreditato dagli ultimi sondaggi del 20%. Poco di più Erc dell’ex vice presidente Oriol Junqueras ancora in carcere. In discesa al 7% gli anti capitalisti della Cup. Il problema è che se anche superassero tutti assieme quota 50% farebbero fatica a governare. Spingere ancora per una Repubblica indipendente? Ormai si è capito che al primo atto di disobbedienza scatterebbero le manette. Limitarsi a barattare la libertà dei leader per una condotta «costituzionale»? Impossibile farlo digerire agli elettori. Un vicolo cieco.
Per uscirne ci vorrebbe una maggioranza «ibrida»: socialisti, sinistra di Podemos e uno a scelta tra i partiti indipendentisti. Così il corso della politica catalana potrebbe cambiare senza che nessuno ci rimetta la faccia in modo troppo clamoroso.
Resterebbe il problema dei politici sotto accusa o, peggio, quello di un presidente eletto che è in carcere o in esilio. I catalani però sono famosi per la creatività: è il momento di mostrarla.
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ALDO CAZZULLO, CORRIERE DELLA SERA 21/12 –
Oggi la Catalogna vota, e il risultato resta incerto. Ma un verdetto è già chiaro: la secessione è fallita. Il sogno, o l’incubo, di dividere uno degli Stati più antichi al mondo è stato vanificato. Sia che gli indipendentisti raggiungano una striminzita maggioranza, sia che prevalgano i partiti favorevoli — con sfumature molto diverse — all’unità nazionale, la Catalogna non diventerà una Repubblica indipendente. Ma il prezzo da pagare a questa avventura sarà alto. Sia per i vinti, sia per i vincitori. Per questo occorre fare in modo che la dolorosa lezione di Barcellona sia utile a tutti gli europei .
C’è stato un momento, dopo la vittoria di Brexit, in cui è parso che la storia potesse invertire il proprio corso: fine dell’Europa, crollo dell’assetto politico, rivolta planetaria contro il sistema. Non è andata così. Le spinte centrifughe, rivolte a sovvertire le istituzioni internazionali e financo gli Stati sovrani, sono ancora forti, ma non hanno prevalso. Questo non significa che si possa fare come se nulla fosse accaduto. Al contrario, è il tempo di chiedersi come si sia arrivati così vicini al baratro, e come si possa dare alle tensioni una risposta che non siano soltanto i manganelli di Rajoy, il rigore contabile della Merkel, la tecnocrazia degli apparati.
Il caso di Barcellona è esemplare, e può insegnare molto anche a noi. La città in questi anni aveva creato il mito di se stessa. Con la fine della dittatura e il successo dell’Olimpiade del 1992, è diventata il posto dove andare, dove esserci, dove farsi vedere .
Ogni nome suonava: Messi e Ferran Adrià, gli studenti dell’Erasmus e la movida sulle Ramblas, non a caso vigliaccamente colpite dal terrorismo che odia la libertà e l’amore per la vita. Il tentativo catalanista ha rischiato di mandare in frantumi l’immagine e la sostanza di questo microcosmo, creando gravi danni al turismo e all’economia, scavando un solco nella società, spezzando famiglie, amicizie, amori. Il calcolo era approfittare della debolezza dell’Europa e di Madrid, dove il premier Rajoy governa senza maggioranza parlamentare. Il fallimento non potrebbe essere più totale: Rajoy, visto come il garante dell’unità nazionale, qui prenderà appena un pugno di voti, ma nel resto della Spagna è più forte di prima. Gli indipendentisti hanno ancora un vasto seguito; ma non sono riusciti né a suscitare la reazione popolare, né a procurarsi un sostegno o almeno una mediazione europea. L’asse tra Rajoy e la Merkel, che ha portato al salvataggio delle banche spagnole (e pure all’assegnazione ad Amsterdam anziché a Milano dell’Agenzia del farmaco), ha retto anche in un momento difficile.
Intendiamoci: la repressione del primo ottobre resterà una pagina nera per la Spagna e l’Europa. Per capire come sia stata possibile, e come sia stata accolta con favore dalla maggioranza degli spagnoli, bisogna ricordare che una guerra per l’indipendenza in questi anni si è già combattuta, e non è stata incruenta come quella catalana. Il terrorismo basco, una minoranza violenta che ha tenuto a lungo in ostaggio la maggioranza pacifica, ha lasciato sul terreno 820 morti; e molti erano baschi «colpevoli» solo di portare una divisa o lavorare per lo Stato. In Catalogna questo non è accaduto. Ma la ferita resta aperta; e per cicatrizzarla servirà una politica lungimirante e generosa, diversa da quella che Rajoy e gli stessi leader di Ciudadanos offrono.
Resta il fatto che i separatisti di tutta Europa hanno dovuto muovere un passo indietro. In Veneto si è votato per l’autonomia, ma esistono secessionisti che non a caso si erano portati a Barcellona, e non sono certo stati incoraggiati nei loro propositi. Più in generale, le istituzioni nazionali e sovranazionali si vanno rivelando più forti di quanto si pensasse. I movimenti antisistema vengono battuti, come Marine Le Pen in Francia, o tendono a loro volta a istituzionalizzarsi, come i Cinque Stelle in Italia. Ma questo non deve indurre a considerare finita l’epoca della rivolta contro l’establishment. A innescare lo strappo catalano è stata anche la crisi economica, la scarsità delle risorse, la pressione fiscale che non scende mai, la distruzione del lavoro per le giovani generazioni: tutte questioni che purtroppo ci riguardano da vicino, ed esigono risposte diverse dall’austerity, dalla burocrazia, dalla conservazione dell’ordine costituito.
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FRANCESCO OLIVO, LA STAMPA 19/12 –
A Sant Julià de Ramis tutto è pronto per il comizio. Ci sono i manifesti, le sedie, le bandiere, si fa volantinaggio. Arrivano pure i militanti e i curiosi. Parte la musica, enfasi al massimo. Non manca nulla, ma sul palco non sale nessuno, c’è solo uno schermo. Dai cristalli liquidi compare Carles Puigdemont: «Ciao a tutti da Bruxelles». Il leader catalano, cacciato dal governo spagnolo, aspira a tornare a Barcellona da vincitore, ma ora non c’è, «è in esilio», raccontano qui con aria drammatica con una punta romantica. Se arrivasse, questo palco non potrebbe raggiungerlo, visto che sulla sua testa pende un mandato di cattura.
Ecco la campagna elettorale catalana, la più pazza del mondo. Giovedì si torna alle urne, formalmente un ordinario voto regionale, ma di fatto l’ennesimo bivio drammatico di questa terra irrequieta, spaccata in due tra chi vuole lasciare Madrid e chi no. La svolta potrebbe non essere così chiara alla chiusura dei seggi: le previsioni indicano un sostanziale pareggio tra il blocco indipendentista, che si presenta con liste separate, e quello cosiddetto costituzionalista (socialisti, popolari e Ciudadanos), con il partito della sindaca di Barcellona Ada Colau che potrebbe essere ago della bilancia.
Dovevano essere le elezioni del ritorno alla normalità, ma le anomalie si moltiplicano. Dopo tanti giorni drammatici si torna a votare, si sceglie il nuovo parlamento, a seguito dello scioglimento imposto dal governo spagnolo come risposta alla dichiarazione di indipendenza di fine ottobre. Per Mariano Rajoy, il premier spagnolo che ha annullato le istituzioni locali per insubordinazione, la convocazione di nuove elezioni doveva significare la fine dei tumulti e la sua scelta in effetti ha fatto calare una tensione arrivata a livelli insostenibili e persino pericolosi, vista la fuga di oltre tremila imprese. Ma la campagna elettorale ha mostrato che di tutto si può parlare tranne che di normalità. Basta una passeggiata tra i molti appuntamenti politici per rendersene conto. In testa ai sondaggi c’è Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat, leader di Esquerra (sinistra) republicana, da oltre un mese nella prigione di Estremera (Madrid), accusato di ribellione, sedizione e malversazione. Dopo tanti giorni di silenzio forzato, la voce di Junqueras è tornata ad essere ascoltata in pubblico, grazie a un audio di 30 secondi registrato dietro le sbarre e arrivato in qualche modo ai compagni di partito. Il minicomizio ha fatto indignare il ministro degli Interni spagnolo Zoido che ha aperto un procedimento: le poche comunicazioni andrebbero rivolte solo ai familiari.
Agli appuntamenti, come detto, non c’è (fisicamente) nemmeno Carles Puigdemont, che poche ore dopo l’effimera proclamazione della repubblica è fuggito in Belgio, dove non a caso si è tenuta la più grande manifestazione di questo mese: 75 mila catalani per le vie della capitale europea.
La giunta elettorale, diretta da Madrid in base a quell’articolo 155 che ha sospeso l’autonomia, fa fatica a far rispettare le regole. Così si arriva a divieti anche bizzarri, come la proibizione di utilizzo del giallo nelle decorazioni delle città, visto che il «groc» (in catalano) è il colore scelto per sostenere i «prigionieri politici». L’unico vero momento di tensione, con problemi di ordine pubblico si è registrato con la riconsegna di una serie di opere d’arte in un monastero dell’Aragona, ospitate da decenni nel museo della città catalana di Lleida. La magistratura ha deciso che quelle opere dovessero tornare a casa e per riportare gli oggetti sacri a Sijena è servita la Guardia Civil.
Quello di giovedì non è un referendum e la battaglia ci sarà anche dentro gli schieramenti. Cosa succederà in caso di vittoria dell’indipendentismo? Le tre anime hanno idee diverse: Puigdemont, che da Bruxelles guida Junts per Catalunya, vuole tornare a essere presidente, non riconoscendo l’intervento con il quale Madrid lo ha destituito. Oriol Junqueras, leader di Esquerra, crede invece che, in caso di vittoria, spetterebbe a lui il Palau de la Generalitat, rinunciando per ora a quelle forzature unilaterali che hanno portato al collasso economico e politico la Catalogna. La rottura è invece invocata dalla Cup, l’estrema sinistra della coalizione. La sintesi sarà, eufemismo, complessa.