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 2017  dicembre 21 Giovedì calendario

La maison ha il fiato corto, ora il diavolo snobba Prada

Il diavolo non veste più Prada. Anzi, sembra averla abbandonata. Non da oggi, in verità, visto che dal 2013 i titoli quotati alla Borsa di Hong Kong hanno perso quasi terzi del loro valore: dagli 81,5 dollari hkg toccati nella primavera di quell’anno (il titolo era stato collocato a 40 dollari hkg nel 2011) a poco meno di 28 dollari in questi ultimi giorni. Il fortunato romanzo di Lauren Weisberger («Il diavolo veste Prada», che tre anni dopo diventò il film con una indimenticabile Meryl Streep) è del 2003: l’anno del grande rilancio, dopo la grande paura e il salvataggio finanziario. Proprio la paura scatenata dagli attentati alle Torri Gemelle suggerirono alle tre banche finanziatrici della maison (Deutsche Bank, Bnp Paribas e Barclays) di chiedere il rientro dei 600 milioni di euro di affidamenti fino ad allora concessi. Se non fosse si fosse sostituita a loro Banca Intesa, allora guidata da Corrado Passera e non ancora fusa nell’Istituto San Paolo di Torino, sarebbe stato il tracollo finanziario già quindici anni fa. Invece, anche grazie a un prestito obbligazionario aggiuntivo di 200 milioni, fu il rilancio. Una nuova stagione di successo, con la giusta intuizione di spostare progressivamente il baricentro economico-finanziario in Estremo Oriente. Non a caso per la quotazione in Borsa non fu scelta né Milano né New York, ma la piazza di Hong Kong.
COMPETIZIONE FEROCE
Tuttavia, proprio mentre il settore del lusso lancia nuovi e forti segnali di ripresa grazie soprattutto alle vendite online, la corazzata delle famiglie Prada e Bertelli (che con la finanziaria Prada Holding spa controllano ancora saldamente l’80% del capitale) mostra di non sapere riprendere il largo, dopo la nuova grande crisi. La prima semestrale 2017 (quella che chiude il 31 luglio) ha offerto numeri che hanno contribuito a fare abbassare ulteriormente la quotazione del titolo. Le vendite del gruppo (che oggi vanta cinque marchi: Prada, Miu Miu, Church’s, Car Shoe e Marchesi) sono scese del 5,7% (1,44 miliardi di euro in valore assoluto) rispetto a un già non roseo primo semestre 2016. L’utile netto si è così fermato a 115,7 milioni, facendo registrare un calo del 18,4%. Nel 2016 l’utile netto era già diminuito del 15,9% rispetto all’anno precedente: da 330 a 278 milioni di euro. Nonostante le performance commerciali negative, il dividendo pagato agli azionisti è stato leggermente aumentato da 0,11 a 0,12 euro per azione. Una scelta non compresa dai mercati, convinti che la decisione sia stata assunta nell’interesse esclusivo dei due azionisti di maggioranza.
La competizione sul mercato del lusso si è fatta feroce. La forza dei brand è quotidianamente sfidata da nuovi consumatori più esigenti, meno fedeli, più informati. E più giovani. Un analista che preferisce restare anonimo individua in questo gap generazionale uno dei problemi di Prada. «Al comando ci sono ancora Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, due settantenni che hanno fatto il successo del marchio degli anni Ottanta, ma che oggi non possono intercettare i trend setter del nuovo millennio. I Millennials sono quelli che decidono il mercato». L’anagrafe può anche spiegare un’altra delle debolezze del gruppo: il mercato digitale. Solo nel 2017 Patrizio Bertelli, amministratore delegato di Prada e marito di Miuccia, è stato costituito un team chiamato a presidiare il canale di vendite online e tutta l’attività social del gruppo. Tardi. Troppo tardi rispetto a quanto hanno fatto i competitor che oggi vantano dal 15% al 25% il volume di vendite nell’e-commerce. Per Prada nel 2018 potrebbe essere raggiunto a fatica il 5 per cento.
RITARDO SUL WEB
Non è solo l’allestimento di un canale di vendita online a fare la differenza, ma la capacità di intercettare il consumatore in Rete, prima che arrivi in negozio. Anche chi acquista nello store tradizionale ha già vissuto sul web e sui social un’articolata esperienza del marchio e dei prodotti. «È vero ammettono al quartier generale del Gruppo c’è stato un po’ di scetticismo negli anni scorsi, rispetto alla rivoluzione digitale. Molti pensavano che il lusso non potesse prescindere da una esperienza reale, non virtuale. L’esclusività era parso che male si integrasse con la dematerializzazione della Rete. È stato un errore, ma stiamo correndo ai ripari».
Il ritardo accumulato non è poco. La semestrale di luglio ne ha dato conferma. Così come l’andamento del titolo in Borsa. «Anche se aggiungono dal Gruppo i volumi scambiati negli ultimi sei mesi a Hong Kong sono più alti della media; vuol dire che gli investitori sono tornati a guardare con interesse all’evoluzione del Gruppo».
Ma le debolezze, per Luigi Solca di Exane Bnp Paribas, riguardano anche il merchandising e la timidezza nella scommessa su alcuni nuovi prodotti, come le giovanili sneakers, poco valorizzate tra le calzature del catalogo.
INTERCETTARE I MILLENNIALS
Eppure confermano anche le analisi di Altagamma la ripartenza del lusso, in Asia soprattutto, sarà guidata dai consumi dei Millennials. O ci sono le grandi maison francesi, grandi per dimensione (come Lvmh) e per heritage, che possono assorbire i colpi più nervosi del mercato flessibile e discontinuo, o ci sono le piccole novità che fioriscono sull’onda di una creatività nuova, in senso generazionale e produttivo. Prada è troppo giovane (la data di fondazione, 1913, non inganni: la vera sfida al mercato del lusso cominciò all’inizio degli anni Ottanta) e troppo piccola. Il caso dell’acquisizione di Marchesi 1824, una storica pasticceria milanese di grande qualità, può dare l’idea di un percorso intuito correttamente ma ancora non sviluppato: è vero che il lusso è ormai una esperienza che coinvolge anche il food. Ma o ci si muove nello scarto dimensionale di Lvmh, oppure la chicca di Marchesi, lungi dall’essere una diversificazione, alla fine sarà sembrata un mero diversivo.
Il diavolo si è fatto giovane, digitale e, se deve dedicarsi al peccato di gola, preferisce lo champagne alle praline di cioccolato.