la Repubblica, 21 dicembre 2017
Ernesto Franco: «Il futuro dell’Einaudi? Ritraduciamo la Bibbia nella collana di Voltaire»
ROMA Ernesto Franco, genovese classe ’56, si illude con ironia di riuscire a vivere contemporaneamente due vite: scrittore, come recita il capolavoro di understatement che è la sua voce wikipedia, e direttore generale editoriale dell’Einaudi. È vero che si accende quando gli si mettono davanti due libri portati per l’occasione che tanto contano nella prima vita: la Summa di Maqroll il gabbiere di Alvaro Mutis e l’Elogio dell’ombra di Borges. Ma in realtà sa benissimo che la sua vera vita è l’altra, quella che lo occupa da quasi vent’anni: governare la più importante casa editrice italiana.
Al tavolo di un hotel ricavato in un gioiello barocco nascosto di Roma, Franco annuncia l’ennesima progetto, prematuro definirla svolta culturale, dell’Einaudi: «Stiamo facendo una nuova traduzione della Bibbia. È curata da Enzo Bianchi e dalla Comunità di Bose. Con dodici specialisti che lavorano da anni sul progetto.
Sarà la prima Bibbia non confessionale, la Bibbia che possono leggere i laici».
Non eravate illuministi?
«Oggi l’autonomia del politico si è sbriciolata. Da una parte c’è la secolarizzazione con le sue derive di cinismo e dall’altra la maggioranza del pianeta che sembra organizzare i propri valori intorno al pensiero religioso. Non possiamo capire la nostra cultura, la nostra letteratura e storia dell’arte senza conoscere la Bibbia. Perché dobbiamo lasciare ciò che Northrorp Frye definiva il “grande codice” esposto a derive e fondamentalismi? Uscirà nei Millenni, la collana di Voltaire. Una casa editrice con una tradizione illuministica e critica deve ripartire dal testo, dalla traduzione basata su metodi storico-critici. Senza contare che ogni volta che si mette mano alla Bibbia, come sapevano bene San Gerolamo e Lutero, ci si pone un problema di interrogazione del mondo in un preciso momento della storia».
Lei parla di sbriciolamento del politico, ma la cultura, compresa quella elaborata dall’editoria, non sembra messa meglio.
«Parte considerevole del lavoro editoriale è fatta di cultura e nozioni, certo, ma centrale è una specifica sensibilità del contemporaneo. E una casa editrice è un organismo vivace, si sporca con le metamorfosi della cultura per poterle sentire prima ancora che capire e interpretare. La casa editrice non è un puro diamante, assomiglia più a una roccia che carsicamente si modifica, lasciando scorie e detriti. Quando si costruì questo gruppo redazionale, avevamo chiara in mente un’organizzazione che prevedesse la formazione di nuove generazioni di editor per restare al passo con la contemporaneità».
Pubblicate 300 libri l’anno. Un catalogo così esteso non pregiudica la vostra identità?
«Cento di questi titoli sono ricadute nei tascabili, che comprendono un arco che va da Plutarco e Catullo a Patty Pravo. Hanno tempi diversi.
Due tipi di libro sono necessari a qualsiasi a casa editrice: quelli il cui valore supera il tempo, i Kazuo Ishiguro o i David Foster Wallace. E quelli che bruciano con il tempo».
Di questi ultimi non farà esempi, immagino.
«Se dovessi definire oggi l’Einaudi direi che è una casa editrice non certo nazional-popolare ma, questo sì, global-nazionale. Ci impegniamo a guardare oltre i confini, di qualsiasi tipo. L’Einaudi mantiene la sua tradizione critica, la sua vocazione è essere infedele a se stessa. Questa è stata la lezione di Giulio Einaudi. Pavese nel ’ 48 già parlava, riferendosi al catalogo e, citando Orazio, di “concordia discorde”. Questo cerchiamo di conservare: un organismo che sia vivente attraverso le generazioni che lo compongono e attraverso la compromissione con la cultura che lo circonda».
Avete confermato il 5,5 per cento del mercato. Quest’anno avete vinto Strega, Campiello e en passant il Nobel. Quanto contano risultati e palmarès per l’indipendenza del gioiello della corona della Mondadori?
«Editoria è fare i conti con la fantasia degli altri. Conti economici e confronto continuo con gli autori.
Sono cose intrecciate. Se fossimo una finanziaria conterebbero solo i numeri, se fossimo una fondazione solo il valore culturale. Ma siamo un’entità che intreccia le due cose.
Questo garantisce l’indipendenza delle case editrici».
Lei guida l’Einaudi dal ’98.
Sente di avere delle responsabilità nelle difficoltà che oggi hanno le centrali di pensiero?
«Come diceva Calvino, fai questo mestiere perché vorresti che la cultura fosse in un modo e non in un altro. Avrei voluto pubblicare chi, per i motivi più diversi, non ho potuto, ho sbagliato certi libri, deve capitare per forza. Alla fine quello che puoi rivendicare sono intenzioni più che un progetto.
Discutibili, mai perfette».
Ma voi avevate quella che si definiva egemonia culturale.
«Negli anni Settanta non c’era già più. L’egemonia è una condizione a cui tendono sia i giornali che le case editrici ed è giusto che sia così.
L’egemonia non è un potere, è un prestigio».
L’egemonia einaudiana non è certo finita negli anni Cinquanta, ma è durata almeno per fino agli Ottanta quando il Pci, il partito di riferimento, era fortissimo. In ogni caso, oggi ci si può ambire?
«No. Oggi la molteplicità in campo non lo consente».È un bene o un male?
«Un bene».
Ma la molteplicità è fatta di singoli che non credono più negli intermediari, che considerano la mediazione superabile attraverso la rete. Lei è favorevole a questo?
«Questo è un mondo che scambia la superprotesi che è la rete per la realtà oggettiva. Forse è crollata l’idea di visione collettiva. Ma c’è una ricerca di magistero soprattutto ma non solo tra le giovani generazioni. I mille festival, per esempio, sono il desiderio di sentire una voce. È un fenomeno sostitutivo di alcune mancanze istituzionali».
Una di queste mancanze è la voce degli intellettuali. Non crede ci sia stato l’ennesimo tradimento dei chierici?
Chierici che molto spesso ruotano intorno al vostro mondo.
«Quello della classe degli intellettuali che ha fallito è un discorso legato alla polarizzazione della contemporaneità: esistono forti individualità, ma non hanno un contesto. E poi c’è il disastro dell’universo della formazione, dell’università, che si ripercuote sui cittadini e sul futuro del Paese. È un pasticcio che non può essere risolto da un singolo».
Non pensa che anche i narratori italiani, rifugiatisi nel racconto intimo, abbiano contribuito allo sfaldarsi di quella che lei chiama visione?
«Nascono ancora personaggi senza tempo come quelli raccontati da Di Pietrantonio e Cognetti: sono “figure” di un sentire che ci accomuna. Non c’è più l’epopea ma per quello ci sono le serie tv».Che spesso sono scritte meglio dei romanzi di oggi.
«Non riesco molto a seguirle perché non hanno una fine, che è una caratteristica fondamentale come lo è l’inizio, di una storia, di un’opera».
Sente di svolgere un ruolo di supplenza?
«In questo momento le case editrici possono coprire funzioni mancanti alla società. Lo fanno anche soltanto per sopravvivere ma lo fanno.
Propongono libri rischiosi, altri più cordiali, non bisogna solo seguire la corrente come diceva, in altri tempi, Hermann Hesse parlando della casa editrice Suhrkamp, ma si deve anche saperle resistere».
Quando l’intervista finisce Franco sceglie due poesie dai libri sul tavolo. La prima è la Preghiera di Maqroll, messa in musica da De André. La seconda è Buenos Aires di Borges dove, nella disabitata notte, un morto “continua a spiegare che la morte è illusione”. Disobbedienza e sopravvivenza: si spera due auspici, oltre che per una linea editoriale, per la cultura del Paese.