Corriere della Sera, 21 dicembre 2017
Lehár, l’operetta con Laurito è un varietà tv
Esiste un’opera che abbia la stessa concentrazione di melodie meravigliose che ha La vedova allegra in un po’ più di un paio d’ore? Esiste un’opera che sposi in tal modo leggerezza e malinconia, spensieratezza e nostalgia? Malinconia, si badi, che non è solo percezione di una civiltà al tramonto ma soprattutto veder svanire una tale bellezza nell’attimo stesso in cui la si vorrebbe afferrare.
È poi l’operetta di Franz Lehár uno di quei capolavori che nessun difetto può intaccare. La «cosa» supera il «come». E così anche dal Filarmonico di Verona, dove è in scena fino alla notte di San Silvestro, si esce appagati. Anche se. L’«anche se» consiste nella direzione un po’ bandistica di Sergio Alapont che zavorra a terra un suono che, libero, volerebbe alto. Poco scatto, champagne, bollicine. Fiati e percussioni coprono gli archi, spesso anche le voci. Che sono voci pulite, agili e intonate ma che, soprattutto nel caso della Hanna Glawari di Elisa Balbo e della Valencienne di Lucrezia Drei, sono anche voci piccole. Bene il fronte maschile con Enrico Maria Marabelli (Conte Danilo), Giovanni Romeo (Barone Zeta) e con l’ottimo Francesco Marsiglia (Rossillon).
La messinscena è quella che Gino Landi approntò nel 2005. Funzionava allora e continua a funzionare. Si potrebbero forse aggiornare i dialoghi e le gag in prosa che, con un Njegus come la pur brava e oggettivamente simpatica Marisa Laurito (il pubblico la adora), conserva il sapore di varietà televisivo in stile nazional-popolare. Molto bene il corpo di ballo. È un gran successo.