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 2017  dicembre 20 Mercoledì calendario

«Nelle opere dipinte il significato è sempre religioso»

Nicola Verlato è il Grande Iconodulo: uso un termine religioso, evocante remote battaglie contro l’eresia iconoclasta, perché per lui difendere l’immagine dal minimalismo e dall’astrazione è una missione e quasi una crociata. Intellettuale ferratissimo, ogni sua tela è un anatema scagliato contro il divieto di rappresentare la figura umana che, sebbene non esplicitato, vige negli ambienti più ancorati all’idea di avanguardia. Nato a Verona nel 1965, cresciuto sui Colli Berici e poi studente di architettura a Venezia, il più veneto dei pittori viventi (evidenti i rapporti con Giambattista Tiepolo) è anche uno dei nostri artisti più internazionali. Ha vissuto lungamente a New York e a Los Angeles ed è stato accolto, unico pittore italiano successivo alla transavanguardia, in Painting now, il pantheon della storica americana Suzanne Hudson. Fino al 25 febbraio lo si può ammirare alle Stelline di Milano nella mostra «Le nuove frontiere della pittura», insieme a stelle della figurazione mondiale quali Michaël Borremans e Dana Schutz.
Comincio spesso le mie interviste con l’ineffabile Marina Abramovic, secondo la quale «se una persona fa il pane in una panetteria, quella persona è un panettiere. Ma se qualcuno fa il pane in una galleria, è un artista». Concordi?
«L’arte è il campo disciplinare dove la figura dipinta è programmaticamente negata, o ammessa solo se indebolita. Ciò premesso sono d’accordo con la signora Abramovic: l’arte, beninteso l’arte contemporanea antagonista dell’immagine dipinta, è definita dal contesto. Il suo esempio del panettiere è un po’ patetico, ma rende l’idea del livello a cui si è giunti».
A proposito di criteri, non sopporto che oggi il valore di un artista sia determinato dal suo prezzo. E tu?
«Il mercato è considerato ideologicamente neutrale. Invece, a parte le manipolazioni a cui è sottoposto, è il più potente mezzo di disintegrazione dell’arte figurativa. Il mercato è basato sullo scambio continuo, quindi per il collezionista professionale risulterebbe stupido affezionarsi a un’opera: quanto più è bella tanto meno vale, quanto più è insignificante tanto più viene premiata dal mercato, nel senso che la sua mancanza di significato la rende più adatta a essere velocemente ceduta».
Si può ancora parlare di arte contemporanea italiana, ossia di un’arte identificabile come tale? Te lo chiede un patriota che vede in te un erede degli italianissimi Michelangelo, Giulio Romano e Tiepolo.
«Ti ringrazio molto per i paragoni ma secondo me no, l’arte contemporanea ha funzionato e continua a funzionare come mezzo di eradicazione dell’identità figurativa italiana. Uno dei motivi per cui l’arte contemporanea italiana non conta nulla, o pochissimo, a livello internazionale, è il fatto che il centro valoriale dell’arte contemporanea è imperniato sulla demolizione della cultura artistica figurativa di cui l’Italia è custode. Se un artista italiano contemporaneo ha molto successo è proprio perché non manifesta nulla di italiano nel suo lavoro».
Richard Hamilton ha detto: «Grandi spazi vengono occupati da cose che, essendo astratte, non sono realizzate su una scala a portata degli esseri umani. Sono opere decorative, l’unico argomento che hanno sono se stesse». Tu muovi all’arte astratta la medesima accusa...
«Mi piace la valutazione dell’arte astratta come arte decorativa e perciò minore e sono completamente d’accordo con il giudizio di completa inerzia emotiva di quel genere. Se proprio devo prendere in considerazione l’astratto preferisco le soluzioni musulmane del problema, per esempio i tappeti. Ma anche un muro bianco svolge la sua funzione meglio di un quadro di Robert Ryman».
Serena Vestrucci, vincitrice dell’ultimo premio Cairo, ha detto: «Non voglio dare un particolare significato alle opere che realizzo». Quasi arrivando al nichilismo di Urs Fischer: «Non è necessario il significato, il significato è un valore cattolico». Tu invece credi che il significato sia necessario? E che abbia un valore religioso?
«Non conosco l’artista in questione, però è interessante che affermi il suo disinteresse verso il significato e che un lavoro programmaticamente privo di significato venga premiato in una competizione. Fisher ha ragione, nell’arte il significato è un valore cattolico (inclusivo della precedente tradizione greco-romana) per cui, di converso, la mancanza di significato è un valore calvinista e iconoclasta. Il significato, nelle immagini dipinte, è sempre religioso».
Il pittore Daniele Galliano mi ha detto: «Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere». Non la critica, solo le opere. Qual è la tua opera che ritieni destinata a durare di più?
«Sono d’accordo con Daniele, anche se non sono così ottimista circa la durata delle opere. I percorsi storici sono così intricati che non so quanto rimarrà di quello che stiamo producendo oggi. Di interi periodi non è rimasto nulla, basti pensare alla pittura greca antica, e chissà quanto è stato perduto nei primi secoli della cristianità, per motivi iconoclasti, e quanto è stato distrutto dai raid dei protestanti nelle chiese cattoliche. Le opere hanno sempre avuto necessità di essere protette per poter durare, il tempio o la chiesa secondo me sono principalmente dei sistemi di protezione delle immagini».
Io tifo per il tuo grande murale romano dedicato a Pasolini, Petrarca e Pound. Ma i murali sono esposti alle intemperie: un artista non dovrebbe puntare all’eternità?
«Quello è un lavoro a cui tengo molto, ma lo considero un work in progress nel senso che devo ancora dipingerne la versione definitiva. È l’ingrandimento su un muro di Torpignattara di una grande tempera che ora si trova in una collezione di Hong Kong. Prima o poi spero di realizzare la versione definitiva a olio, che vorrei avesse una lunga durata nel tempo».
David Hockney a San Francisco in 12 settimane ha fatto 240mila spettatori: per un artista italiano vivente tali numeri sono semplicemente inconcepibili. Come mai gli italiani sono così refrattari all’arte italiana contemporanea?
«Non sono gli italiani a essere refrattari all’arte contemporanea, è l’opposto, è l’arte contemporanea a essere antagonista rispetto ai valori incarnati dalla tradizione culturale e figurativa italiana. I numeri che citi sono la testimonianza del bisogno assoluto che hanno le persone di immagini dipinte».
Montale diceva che non è possibile essere grandi poeti bulgari. Ritieni sia ancora possibile essere grandi artisti italiani?
«L’Italia non è un luogo qualsiasi, è il luogo dove per millenni le arti sono state uno strumento fondamentale di organizzazione del territorio e dove quindi hanno espresso il loro potenziale al massimo grado, in termini ineguagliati per qualità e quantità. Forse solo il Giappone o l’India sono paragonabili per il ruolo che ininterrottamente pittura e scultura hanno giocato a livello sociale. Tornando a Montale, se si ripresenteranno le condizioni, cioè la fine della nefasta influenza culturale americana nel mondo, forse i nuovi grandi artisti non potranno che essere italiani».
In attesa che si esaurisca la nefasta influenza, è obbligatorio trasferirsi negli Usa come hai fatto tu?
«Non credo proprio, io sono andato negli Stati Uniti perché per la mia generazione era necessario fare quel passaggio. Internet non era ancora la cosa che è oggi e non c’era modo di costruire la propria carriera se non seguendo le trame del sistema che inevitabilmente portavano a New York. Oggi mi sembra chiaro che gli Stati Uniti stiano declinando in termini di egemonia culturale e le generazioni più giovani, armate di un account Instagram, possono vivere in un paesino in provincia di Frosinone e avere più follower dell’artista più trendy della scena di Brooklyn».