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 2017  dicembre 18 Lunedì calendario

Tedesca o inglese, Alitalia cambia ancora livrea

Anno nuovo, problema vecchio. Il 2018 – come almeno quattro degli ultimi dieci anni – parte con una missione, visti i precedenti, quasi impossibile: trovare un compratore per Alitalia. Dal 2008 ad oggi l’ex compagnia di bandiera ha cambiato padrone tre volte, è finita due volte in amministrazione controllata, ha bruciato perdite per 3 miliardi, si è mangiata qualcosa come un paio di miliardi di soldi pubblici. E ora – forte di un altro prestito dei contribuenti tricolori pari a 900 milioni – prova ad andare per l’ennesima volta a nozze. L’identikit dell’aerolinea all’asta, negli ultimi due lustri, è cambiato molto: gli aerei in flotta sono scesi da 150 a 120, Malpensa non è più hub, la dieta ha ridotto di qualche migliaio di unità (7mila dal 2005) i dipendenti. L’unica cosa che non è mutata, purtroppo, sono i risultati. Tutti i principi azzurri arrivate al capezzale della grande malata dei cieli nazionali – dai capitani coraggiosi messi assieme da IntesaSanPaolo con la regia del Governo Berlusconi fino a Etihad – si sono scottati le dita perdendo una marea di soldi. I tre Commissari arrivati alla cloche, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Panerai, hanno ereditato un’azienda in rosso per due milioni al giorno e sono riusciti ad arginare un po’ l’emorragia solo sfruttando i poteri speciali dell’amministrazione straordinaria. Il mercato però ha capito la lezione.
E i potenziali compratori iscritti all’ennesima asta (con la vendita prevista a fine aprile) – Lufthansa e Easyjet su tutti, più il fondo Usa Cerberus alla finestra – si muovono con i piedi di piombo. Nessuno vuole le attività di terra, per le quali però esistono altre offerte importanti. Nessuno vuole strapagare. Tutti sono pronti a chiudere l’affare solo se si troveranno sul piatto un’Alitalia, in sostanza già ristrutturata e in grado di volare con le sue ali. Come andrà a finire? La cosa chiara a tutti è una: l’offerta di gran lunga più appetibile e in pole position è quella di Lufthansa. I tedeschi – reduci dal blitz su Air Berlin – hanno i soldi, la determinazione e il know-how per andare fino in fondo. La loro ricetta per salvare la società romana è la stessa usata, con successo, per Swiss: concentrare il business sul lungo raggio, affidare le rotte a medio e breve alla propria low-cost Eurowings, fare di Fiumicino il suo quinto hub dopo Francoforte, Monaco, Vienna e Zurigo e trasferire da Linate il ricco traffico business del nord verso gli hub tedeschi. Nulla, ovviamente, si fa per nulla. E il vettore teutonico pretende dai commissari una dote pesante: il taglio di un paio di migliaia degli 8mila dipendenti (ma concentrati su amministrazione e It). Solo in quel caso sarebbe pronto a chiudere l’accordo staccando un assegno il cui valore, si dice, potrebbe aggirarsi sui 300 milioni. La cifra in ballo e il numero degli esuberi sono l’oggetto dei negoziati di queste settimane. E dipenderanno anche da eventuali interventi che i Commissari riusciranno a fare sui costi del gruppo dopo aver già tagliato circa 150 milioni di spese in un anno. Easyjet – fresca di un nuovo vertice – sta ridisegnando le sue strategie e potrebbe usare Alitalia per aprire una sorta di servizio a lungo raggio alimentato dai suoi jet low-cost. In teoria potrebbe anche unire le sue forze con Cerberus, che non può controllare più del 49% della società, magari coinvolgendo anche dipendenti e una piccola partecipazione di garanzia pubblica. Tanti tasselli da mettere assieme, forse troppi, dicono in molti, con il tempo a disposizione. A meno che non si allunghino i tempi dei negoziati. Il tempo, in effetti, non è una variabile ininfluente. Il governo ha già spostato l’orologio della vendita in avanti di cinque mesi da novembre a fine aprile per evitare di far coincidere i tempi di una possibile ristrutturazione di Alitalia con quelli delle elezioni politiche, come era successo nel 2008 quando Berlusconi per un pugno di voti – aveva fatto saltare l’intesa con Air France aprendo alla sfortunata cordata dei patrioti. Il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda e quello dei trasporti Graziano Delrio negli ultimi tempi si sono detti certi di poter concludere l’accordo per la cessione in poche settimane. Segno inequivocabile che con Lufthansa si è ai dettagli. Chi ha memoria storica dei vari salvataggi (falliti) della società predica prudenza. Sindacati – e non solo loro – vorrebbero che lo Stato tenesse ancora un piedino in azienda. Luigi Gubitosi, come Delrio, ha sempre sostenuto che le cose vanno fatte bene piuttosto che presto. E nessuno si stupirebbe, vista la probabile sovrapposizione dell’operazione con le elezioni, se i tempi dovessero allungarsi ancora. Più il tempo si allunga, questo è chiaro, più si raffredderebbe l’interesse di Lufthansa che non a caso sta spingendo per arrivare al fatidico “sì” prima del voto di marzo. Una soluzione rimandata magari a dopo l’estate farebbe invece salire le quotazioni del “modello Cerberus”. Lo stesso esecutivo Gentiloni ha garantito del resto ad Alitalia abbastanza carburante per poter volare da sola ancora a lungo. I 900 milioni prestati dai cittadini alla società (a un tasso del 9,9%) in due tranche bastano per arrivare tranquillamente a fine 2018. A fine novembre ne erano stati consumati solo 64. I risultati operativi fino a quella data non sono stati però brillantissimi. E in questi mesi invernali di bassa stagione la cifra a disposizione dovrebbe ridursi parecchio prima della ripresa prevista da Gubitosi a inizio marzo. Se si chiudesse entro quella data e Lufthansa pagasse davvero una cifra attorno ai 300 milioni, i contribuenti potrebbero forse almeno questa volta rivedere indietro i loro soldi. Più si allungano i tempi (e si assottiglia il tesoretto) più incerto è il rimborso. Comunque vada a finire, la nuova Alitalia dovrà giocoforza essere diversa da quella vecchia: la concorrenza delle low-cost – malgrado i guai di queste settimane di Ryanair – ha reso il mercato a breve e medio raggio impraticabile per l’ex-compagnia di bandiera con la struttura attuale. Gli stessi commissari hanno puntato forte sul lungo raggio aprendo una serie di nuove rotte. Peccato che i voli intercontinetali abbiano bisogno di un lungo periodo di rodaggio prima di andare davvero in pareggio. Motivo per cui, come ripete spesso Calenda, Alitalia ha bisogno di un socio forte in grado di sostenere la degenza per riuscire questa volta a svoltare davvero. Anche quest’ultimo capitolo della sua avventura si chiuderà però lasciando sul campo morti e feriti. In primis i dipendenti che perderanno il lavoro (anche se è prevedibile il tradizionale cuscinetto di ammortizzatori sociali che non è mai mancato ad Alitalia). Ma pure le banche e gli ex soci – Etihad in testa – che a meno di clamorose sorprese vedranno andare in fumo i centinaia di milioni che hanno investito per provare a tenere in aria la grande malata dei cieli tricolori.