la Repubblica, 20 dicembre 2017
Così Mapei mollò il ciclismo. «Un investimento rischioso»
Avevamo tutti vent’anni di meno e qualcuno neppure era nato quando il ciclismo ha iniziato a fare i conti con i suoi orrori e con una parola fino ad allora «sconosciuta», come scrisse Bruno Roussel nel suo Tour de Vices. La parola era «verità». Quel libro, uscito nel 2001, raccontava a tre anni di distanza lo scandalo Festina che devastò il Tour poi vinto da Marco Pantani. Fu, quello, il primo caso conclamato di doping di squadra. Già due anni prima un oscuro corridore francese, Erwann Menthéour, nel suo Secret defònce, scriveva questo: «In tutta la mia carriera ho visto solo due ragazzi correre puliti: Gilles Delion e Christophe Bassons». Quelle frasi restarono proiettili inesplosi in un mondo che continuò a portare avanti indisturbato il suo piano di autodistruzione. Finché si arrivò ai morti. Nell’inverno tra il 2003 e il 2004 la fine del “Chava” Jimenez e quella di Marco Pantani, che cinque anni prima aveva perso il Giro d’Italia a due tappe dalla fine per ematocrito alto, indice di pratiche dopanti confermate anni dopo, innalzò potentemente il livello di guardia. Oltre che a morire il ciclismo, morivano ragazzi di trent’anni. Alla retorica dei compagni che sbagliano iniziò a sostituirsi una più seria presa di coscienza. Ma iniziò allora la fuga degli sponsor. La squadra più importante al mondo negli anni Novanta, l’italiana Mapei, già nel 2002 aveva deciso di chiudere lasciandosi alle spalle oltre 150 vittorie. Il team di Giorgio Squinzi per nove anni aveva imperversato sulle strade. «Avevamo capito che non era più il momento di restare, perché il ciclismo non rappresentava più un investimento positivo» racconta l’ex presidente di Confindustria, «era diventato un gioco al massacro al quale decidemmo di non partecipare più. Serviva fare compromessi morali inaccettabili per stare al passo con gli altri e soprattutto il prodotto era diventato labile a aleatorio. Se un tuo corridore veniva beccato il danno era devastante. Eravamo la Sky di quei tempi, arrivammo a mettere nel ciclismo anche 15 milioni l’anno. Ma quando Garzelli fu estromesso dal Giro 2002 per una oscura vicenda mai del tutto chiarita, capii che la fine era vicina. Siamo rimasti solo come sponsor di eventi Uci. Ma non vogliamo legare il nostro nome alle vicende di uno o dell’altro corridore, è troppo rischioso».
La storia non ha smentito le paure di Squinzi. Dopo aver vinto 7 Tour de France consecutivi tra il 1999 e il 2005 e senza mai essere stato trovato positivo ad un controllo grazie a connivenze e trucchi di ogni genere, sulla spinta di inchieste giornalistiche e poi su pressione dell’agenzia americana antidoping ( Usada), Lance Armstrong ammetterà nel 2013 di aver preso di tutto. L’impressionante numero di yes alle domande di Oprah Winfrey ha rappresentato per molti corridori di oggi, come racconta anche Phil Gaimon nella sua ultima autobiografia, uno snodo essenziale.
Di fronte alla Cbs e ai sì del texano, il ciclismo di oggi si è scoperto nudo e indifeso, per la prima volta forse. Non più difeso dai suoi poteri, l’Uci innanzitutto, che ha istituito già durante la presidenza Cookson una commissione d’inchiesta, la Circ, e una fondazione antidoping, la Cadf, indipendenti dal potere centrale. Proprio ad un controllo della Cadf è caduto Chris Froome. Tutto è partito da inchieste giornalistiche. Da libri. Da morti e pentiti. Esattamente come accade nella lotta alla mafia.
– 2. continua