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 2017  dicembre 20 Mercoledì calendario

C’era una volta nell’antica Roma il padre padrone

Se nel midollo della nostra cultura c’è qualcosa di veramente “romano”, questo è il diritto. Eppure quando si parla del debito che la nostra cultura ha contratto con quella romana, si pensa subito all’architettura, alla poesia dell’Eneide, alle (più o meno presunte) virtù “logiche” del latino, ma raramente ci si ricorda del diritto. Perché? Perché è difficile. Il diritto romano non è solo un insieme di norme, è soprattutto un modo di pensare.
Una visione della società, degli uomini, perfino del mondo, che segue regole molto peculiari. Ecco perché per parlarne occorre avere due doti che di rado si presentano assieme: una profonda conoscenza della materia e la capacità di farla capire. Eva Cantarella le possiede entrambe, perché è una studiosa che al diritto romano ha dedicato studi fondamentali ma che, nello stesso tempo, ha il dono della scrittura trasparente. Con questo nuovo libro – Come uccidere il padre (Feltrinelli) – l’autrice affronta uno degli istituti centrali non solo nel diritto antico ma anche in quello moderno: la famiglia. Per mostrare da un lato quanto la nostra ricalchi per molti aspetti quella romana, ma anche quanto se ne distacchi. A cominciare dal nome, che è lo stesso, familia – salvo che quella romana comprendeva non solo nonni, genitori e figli, ma anche gli schiavi e perfino gli animali da lavoro. Ecco anzi un ulteriore esempio per comprendere quanto la famiglia antica si distaccasse dalla nostra, e insieme quanto il ius dei Romani costituisse un peculiare modo di pensare la società. Il pater romano esercitava un diritto assoluto sui propri figli, poteva perfino venderli, e manteneva tale diritto fino alla morte. Perché un figlio potesse considerarsi libero bisognava che il padre lo vendesse per ben tre volte. Ne conseguiva che i figli restavano sottomessi ai padri.
Vedi il caso del console Spurio Cassio che, accusato di voler instaurare la tirannide, fu punito da suo padre, che lo fustigò a morte. Già, ma come poteva un figlio avere comunque una vita sua, se tutti i beni, assieme alla sua stessa persona, erano nelle mani del padre? Per questo esisteva il peculium, una somma di danaro messa a disposizione dal padre perché il figlio potesse intraprendere in proprio qualche attività, con l’ulteriore vantaggio di sollevare il padre da questa incombenza. E qui nasceva il problema. Per il solito principio del potere assoluto dei padri sui figli, anche i guadagni realizzati dai figli erano acquisiti dai padri.
Per lo stesso motivo, però, anche i debiti contratti dai figli sarebbero dovuti ricadere sui padri – i quali però non erano tenuti a saldarli.
Un bel busillis giuridico. Chi si sarebbe mai messo in affari con un “figlio” a questi patti? Il pretore risolveva il problema con la tecnica del caso per caso, ossia stabilendo differenti responsabilità debitorie in relazione ai singoli contraenti.
Così il principio stabilito nel ius restava indiscusso, ma insieme si trovava il modo di aggirarlo. Con il tempo anche la famiglia romana si modificò nel suo assetto, sotto l’influenza del cristianesimo, della mutata cultura filosofica, infine con l’avvento delle popolazioni del nord. Ma con la patria potestas dei Romani la nostra cultura ha continuato a fare i conti ancora a lungo e, almeno nel costume, spesso continua a doverceli fare anche oggi. Perfino con esiti drammatici, come sappiamo.