Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 20 Mercoledì calendario

Guido Ceronetti: «Sono l’ultimo eretico per sempre fedele al sogno dei catari»

CETONA (SIENA) Tra le poche cose dilettevoli che dice di poter ancora fare c’è scrivere le lettere all’amica, la pittrice Giosetta Fioroni, «con cui scambiamo i lamenti della vita senile». Ma intanto, a novant’anni compiuti a fine agosto, Guido Ceronetti – questo omino malandato e sofferente, costretto a muoversi appoggiato a qualcuno o a un deambulatore, la voce lenta, arcana – è tutto fuorché frastornato e fuori dal mondo. «Oh sì, la testa va. Mi ricordo anche il nome del nonno di Napoleone. Ma a che mi serve se il corpo non funziona?», lamenta seduto nella piccola, disadorna, cucina della casa di Cetona dove vive una sua ritualità fatta di letture, brevi «passeggiate liberatorie» e il rapporto vivo con le case editrici. Perché la sua opera è ancora tenace: progetta nuove traduzioni degli Epigrammi di Marziale, delle poesie di Catullo, dell’Ecclesiaste; due mesi fa ha pubblicato da Adelphi Il Messia, sulle testimonianze messianiche in Dostoevskij, Beckett, Rimbaud... Einaudi uscirà il 27 febbraio con un libro inedito, Regie immaginarie, testimonianza della sua passione per il teatro. In questi giorni, poi, sono in corso due mostre di sue foto, disegni, scritti: alla Libreria ’ 900 di Carta a Roma e l’altra alla Biblioteca Cantonale di Lugano. «Mi piacerebbe prima o poi esporre anche i documenti di Ti saluto mio secolo crudele sul ’900, dannatissimo secolo salvo che per il teatro e la letteratura, di cui avevo fatto una mostra itinerante. Ma come faccio, con il fisico che non mi regge più? Chi a novant’anni dice che sta benone, è un impostore. Io sento tutta la debolezza del corpo concentrata in quel numero. Mai amata la vecchiaia. Il corpo ha un tempo e tu ne hai un altro. E cominci ad avere un rapporto confidenziale con la morte».
Le fa paura?
«Solo di soffrire. Uno ha già tribolato fin qui, e adesso tribolare in un letto di ospedale, no grazie».
Se dovesse capitare, penserebbe a una forma dieutanasia?
«Non ho una vocazione al suicidio, ma quello assistito mi fa piacere che ci sia, che esista almeno una porta di uscita. L’Italia cattolica, figuriamoci, non ce lo permette.
Guardi le difficoltà che ci sono state con la legge (ora approvata, ndr) sul biotestamento. La vicinanza con la Chiesa la scontiamo da secoli. La prima colpa della democrazia italiana è stata la criminale adesione di Palmiro Togliatti ai Patti del Laterano. E quanto al lodato De Gasperi per quei Patti avrebbe anche riaperto la strada a Mussolini se fosse stato ancora in vita. Io me le ricordo le veglie di Pio XII. Neanche i papi mi sono mai piaciuti: occupano un posto che mi disturba».
E papa Francesco?
«Non mi piace. L’unico che stimo è Giovanni XXIII, buonanima.
Certo, la convocazione del Concilio non so che bene abbia portato all’umanità e l’unico esito avuto è stato di eliminare il latino.
Una iattura. Questa messa facile facile dove le citazioni bibliche vengono espresse in traduzioni che gridano vendetta del Signore.
Mi hanno detto che i prelati hanno tutti in casa le mie traduzioni, ma ai fedeli danno quella roba. Ma tanto gli italiani sono un popolo antibiblico, altrimenti la riforma non sarebbe stata limitata alle valli valdesi. Per quanto mi riguarda, quel che è certo è che in punto di morte non chiederei mai i sacramenti. Piuttosto il consolamentum della chiesa catara».
Cosa la lega alla chiesa catara?
«È una vocazione molto giovanile.
Avevo letto un libro di storia catara trovato su una bancarella e sono stato attratto dalle sue tradizioni e leggende. Ho seguito per anni i Cahiers d’Études Cathares che sono diventati una rivista steineriana, perché i catari di oggi sono tutti steineriani.
L’unico pellegrinaggio, a parte Santiago di Compostela, che mi affascina tuttora è a Montségur, dove si svolse l’atto finale della persecuzione contro i catari. Era ed è tuttora un luogo fondamentale. Io ho avuto la visione dell’Angelo che dice “perché non vieni?”. Per questo mi resta la speranza di una leggenda: che a chi è legato alla chiesa catara alla fine della vita vengano due uomini misteriosi a impartirgli il consolamentum, che vale per la vita e per la morte».
Ma che cerimonia è?
«So che un cristiano come Dostoevskij, dio lo benedica, che ha ricevuto o si è impartito il consolamentum, chiese solo di avere in mano o di farsi leggere il Vangelo di Giovanni. I catari rifiutavano i sinottici come non validi, mentre quello di Giovanni era il loro libro sacro».
Qual è il suo libro sacro?
«Per me lo è anche il Versetto della Luce del Corano. È ispirato».
E da cosa capisce che è ispirato?
«Dalla bellezza. La bellezza è sempre un segno di presenza angelica. E quel libro, l’An- Nûr, ha tracce del divino. Mi hanno chiesto tante volte cosa è il divino. Rispondo il segreto, il mistero della vita umana».
Come parliamo di teatro, adesso?
«Non so se si conciliano, so che il teatro mi ha accompagnato per quasi mezzo secolo. C’è una data: il 1970, la fondazione del Teatro dei Sensibili, la mia compagnia.
Facevamo per i bambini del quartiere teatro di marionette».E cosa sono le “regie immaginarie” raccolte nel libro che uscirà a febbraio?
«Un’occasione per rileggere gli autori più importanti della mia vita, rimontati per ipotetiche messe in scena teatrali o cinematografiche, mai realizzate. Allestimenti che mi sono immaginato, I demoni di Dostoevskij, Cechov, alcune fatte in disegni, altre come la battaglia di Stalingrado per il teatro delle ombre».
Il teatro cosa è stato per lei?
«Una religione. Come per Jean-Louis Barrault o Artaud, che ho tanto amato. Culto e occulto.
Ciò che vedi oltre il corpo dell’attore, le sue parole. Non lo spettacolo, le trovate sceniche, ma un’educazione dell’anima.
Nell’antica Grecia il popolo ateniese era educato dai suoi tragici. Io ci ho provato con Quando il tiro si alza, il mio ultimo lavoro scenico, sulla Grande guerra. Pensavo a una festa italo-austriaca di risalita dall’abisso, dalla guerra di quel macellaio di Cadorna, ma sono riuscito a presentarlo solo per poche repliche. Peccato».