La Stampa, 20 dicembre 2017
Richard Murphy: così Scarpa mi ha ispirato la casa ideale
«È cominciato tutto molto tempo fa», racconta l’architetto scozzese Richard Murphy, autore, tra l’altro, di quella che è stata definita come la casa più bella del 2016. «Ed è successo tutto per caso, come capita spesso, con una visita a Verona e la scoperta di un luogo magnifico». Era fatta. Se il Museo di Castelvecchio è stato il progetto della vita per Carlo Scarpa, Carlo Scarpa è stato, nella vicenda professionale e umana di Murphy, uno degli stimoli più costanti e preziosi. «Dopo circa un anno, venni a sapere dall’allora direttore dei Musei Civici di Verona, Licisco Magagnato, che il lavoro di rilievi e di misure su Scarpa era tutto da fare, visto che non esistevano progetti ma soltanto schizzi. Mi ci sono applicato all’Università di Edimburgo, con la ricerca di tre miei studenti. Poi è arrivata una mostra a Edimburgo, che è passata da Londra e poi da Verona. All’inizio dei Novanta ho scritto un libro, tradotto in Italia nel 1991. Ma questa doveva dimostrarsi una storia senza fine».
E infatti di quel testo fondamentale è appena arrivata un’edizione molto accresciuta, da 198 a 384 pagine: Carlo Scarpa and Castelvecchio revisited, acquistabile al sito breakfastmissionpublishing.com: dove si dimostra quanto sia stata cruciale quell’operazione di ripensamento architettonico, e come abbia dato cittadinanza a un’attività, quella dell’intervento su edifici storici, che fino a quel momento non era neppure considerata architettura in senso stretto. «Difatti – sottolinea Murphy – nessuno dei grandi del Novecento, da Frank Lloyd Wright ad Alvar Aalto, ci si era mai applicato. Scarpa è stato a lungo una voce isolata. Anzi, nel corso della sua vita è stato considerato come una figura anacronistica: un gran signore veneziano, non un architetto vero e proprio. E invece è stato il primo a rompere il pregiudizio sulla conversazione fra antico e moderno: in un momento di crisi d’identità della professione, è arrivato proprio al momento opportuno».
Secondo Murphy, «oltre a essere stato un magnifico museum designer», e ad avere, in altre fasi del suo percorso, «letteralmente reinterpretato Venezia», Scarpa con il progetto di Castelvecchio «dimostrò anche doti di archeologo, perché lesse le diverse stratificazioni nella vita dell’edificio», dal XII secolo in poi, compresi i massicci interventi effettuati in età napoleonica e negli Anni Trenta. Di fronte a un complesso che non esitò a definire «tutto falso», scelse la strada dell’astrazione e della presa di distanza, trasformandolo in una magnifica quinta teatrale.
Ma i materiali e le intuizioni del «gran signore veneziano» tornano, in maniera commovente, anche in quella che di Murphy è la casa della vita: la sua abitazione edimburghese di Hart Street, quella che appunto gli ha valso l’anno scorso il riconoscimento della società britannica degli architetti, dove il patio richiama direttamente il giardino a Palazzo Querini Stampalia di Venezia. «Certo, qui c’è molto di Scarpa: ma anche di Sir John Soane, di Frank Lloyd Wright, di tante delle figure che mi hanno ispirato. È una casa interessante, sostenibile, molto piccola ma piena di accorgimenti e di elementi mobili che sfruttano lo spazio per farla sembrare più grande, e si armonizza in modo interessante con il quartiere in cui si trova». L’hanno paragonata a una grotta delle meraviglie e al cubo di Rubik. Qualcuno ha detto pure che, con i suoi pannelli scorrevoli, le sue scale a pioli e i suoi scaffali pieni di libri (e di fascicoli del National Geographic: una manìa del padrone di casa) sarebbe perfetta nei cartoni animati molto British di Wallace&Gromit, quelli della Maledizione del coniglio mannaro.
Qui Murphy cucina, riceve gli amici e ascolta musica classica, spesso eseguita dal vivo dai solisti che passano in città. Qui pensa ai suoi prossimi impegni, tra cui l’attesissimo Cruise Line Terminal di Greenock vicino a Glasgow, che incorporerà alla stazione marittima per le grandi navi da crociera un museo dedicato allo scultore George Wyllie, «una combinazione ardita che porterà a risultati inattesi».
Gli chiediamo se quella di Hart Street rimanga ancora la sua casa ideale, e la risposta è che «non cambierebbe nulla». Ma è vero che, dopo averla costruita, non riuscì ad arredarla come voleva? «Purtroppo sì, è una storia lunga e vedrò di stringerla all’osso: alla fine non avevo più un soldo e sono stato costretto a comperare mobili molto economici. Ma il progetto continua, e sono sicuro che lo porterò a termine».