Corriere della Sera, 20 dicembre 2017
Vittorio Gregotti: 64 anni di fedeltà all’architettura che ragiona su di sé
«Questa mostra è la testimonianza di aver lavorato tanto, senza perdere tempo. Consente di realizzare confronti tra i progetti, di osservare successi e debolezze». Un bilancio? «Preferisco non fare un bilancio, quelli della nostra generazione rischiano di non essere mai positivi». Così, con molta lucidità e un brivido di malinconia, Vittorio Gregottiintroduce Il territorio dell’architettura. Gregotti e Associati 1953-2017 : più che una mostra, un percorso tra 64 anni di lavoro collettivo di una bottega d’architettura del tardo Ventesimo secolo.
Aperta da oggi al Pac, mette in esposizione 60 disegni, 40 modelli in legno, 700 riproduzioni fotografiche oltre a una rassegna di libri e riviste che sintetizzano in mille metri quadrati la creazione di 1.200 progetti realizzati dallo studio di Vittorio Gregotti. E sintetizzano anche un’ininterrotta riflessione sull’architettura come pratica artistica confluita in 1.200 articoli e 40 libri, il cui più celebre, Il territorio dell’architettura (1976), dà il titolo all’esposizione.
L’ugual numero di progetti e di articoli prodotti è una coincidenza che offre la più perfetta chiave di lettura dell’attività di Gregotti: non esiste architettura al di fuori della riflessione su di essa. Bisognerebbe dire «non esisteva», poiché oggi lo studio universitario ridotto ad apprendimento di pratiche tecnologiche e la sovrastante forza della finanza hanno ridotto l’architettura a una pratica applicativa esercitata al confine della speculazione, distaccandola dall’essere «un’attività critica che intende apportare un contributo alla trasformazione della società». Gregotti è rimasto invece coerentemente legato a questa scelta critica, proprio mentre il mondo travolgeva le relazioni sociali, sostituiva le élite borghesi con un potere finanziario anonimo innalzando la tecnologia da strumento a ideologia parassitaria al servizio dell’economia globale. «L’architettura come pratica artistica – confessa Gregotti — oggi non ha più interesse. E nemmeno lo hanno le altre arti, come la pittura o la letteratura: oggi sembra che se un romanzo non diventa un film non valga nulla. L’architettura un tempo era espressione della pratica religiosa, oggi lo è delle dinamiche finanziarie». Se succederà qualcosa in grado di mutare queste dinamiche, di certo non nascerà dall’interno dell’architettura.
I suoi maestri, Gregotti, li cerca più fuori che dentro l’architettura: «Penso a Thomas Mann per la capacità di trasmettere il senso del tempo, a Enzo Paci per il dialogo instaurato tra società e filosofia, a Ernesto Nathan Rogers per la pratica progettuale».
Il curatore della mostra, Guido Morpurgo, ha scelto di raccontare i 64 anni in ordine cronologico, ma sottolineando l’ampiezza geografica di questa avventura. Le caratteristiche che emergono sono quelle di lavori frutto di una koinè intellettuale legata a Gregotti, della creazione di un abaco riconoscibile, di una fuga dalla autoreferenzialità e di lavori nati dal confronto con il contesto poiché «ogni mutazione parte da ciò che esiste».
I pezzi esposti provengono, prevalentemente, dai due istituti ai quali Gregotti ha deciso di donarli: il gabinetto di disegni del Centre Pompidou di Parigi e il Casva (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive) di Milano. Questi disegni e maquette mostrano l’inesausto lavoro contro la dissoluzione dell’architettura in periodi e scale diverse.
Si va dai primi lavori con Meneghetti, Stoppino e Rogers, dalle case popolari di Novara, Brescia e Milano sino alle industrie tessili Bossi e Gabel che testimoniano il legame di Gregotti con l’industria («Sono figlio di industriali, praticamente nato in fabbrica»). Quindi assistiamo all’avvento di un suo linguaggio inizialmente non lontano da quello di Aldo Rossi, caratterizzato dell’interpretazione della storia attraverso il Razionalismo (evidente anche nel Centro ricerche Enea di Napoli). Si passa quindi alle opere su larga scala, come il controverso quartiere Zen di Palermo (esito dell’impossibilità italiana di condurre a termine un progetto secondo gli intenti iniziali), le università della Calabria, di Firenze e di Palermo, gli stadi di Genova, di Agadir e Marrakech in Marocco e di Barcellona (Olimpico), un intervento, quest’ultimo, che ingloba anche la preesistenza.
Negli anni Novanta i progetti sono a tutte le scale: dal design, agli allestimenti (da ricordare quello per la mostra Idea Ferrari al Forte Belvedere di Firenze, con i cubi trasparenti che poggiano sulla spianata del forte), agli edifici per abitazione (Berlino) ai piani urbani per città italiane ed europee. L’anno prima di iniziare la trasformazione della Bicocca (1994), Gregotti conclude il Centro Culturale Belém di Barcellona ridefinendo il lungo Tago di fronte al Monastero dos Jerónimos, capolavoro in stile manuelino costruito per il ritorno di Vasco da Gama, che vi è sepolto. Infine l’oggi, con i grandi piani urbani e con la costruzione della città di Pujiang in Cina. Questo, per sintesi, il «catalogo impossibile» dello Studio Gregotti.
Grazie alla collaborazione con la Fondazione Pirelli e con l’Università, sono previste visite guidate al Quartiere Bicocca, dove Gregotti ha trasformato «delle fabbriche in fabbriche del sapere» (Antonio Calabrò, Fondazione Pirelli). La mostra inaugura inoltre una serie di esposizioni su architettura e design contemporaneo che continueranno nel 2018 con quelle su Enzo Mari, Ignazio e Jacopo Gardella. Anzi, Milano dedicherà il 2018, come ha ricordato ieri l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno, a una serie di appuntamenti sul tema del contemporaneo.