Corriere della Sera, 20 dicembre 2017
Il solito sospetto
God bless America e quel che resta della povera atletica, già uscita lo scorso agosto dal Mondiale di Londra con il lutto al braccio per il ritiro di Usain Bolt, oggi tramortita dall’inchiesta del Daily Telegraph, che ha travestito i suoi reporter da mediatori per un film e li ha mandati in Florida a incontrare Dennis Mitchell e Robert Wagner, coach e agente dell’oro mondiale in carica nei 100 metri: lo statunitense Justin Gatlin, la fedina penale sporcata da due positività (alle anfetamine nel 2001 e al testosterone nel 2006), il solito sospetto.
Dobbiamo far sembrare il nostro attore un vero atleta, hanno detto i giornalisti al gatto e alla volpe: avete un aiutino da suggerirci? Mitchell (ex velocista, oro olimpico in staffetta a Barcellona ‘92, due titoli iridati) e Wagner (ex manager di Ben Johnson, oro – poi revocato – nei 100 metri a Seul ‘88, il caso doping più clamoroso della storia del tartan) avrebbero proposto una fornitura di prodotti proibiti (testosterone e ormone della crescita) per 250 mila dollari, che un compiacente medico austriaco sarebbe stato disposto a procurare. Wagner, poi, registrato dai reporter, è andato oltre: «Il doping è la mia specialità – avrebbe detto —. È il succo dell’atletica. Pensate che Justin non ne faccia uso? O che Dennis non l’abbia usato in passato? Tutti lo fanno!». Gatlin, che questa volta non è alle prese con una positività conclamata ma è chiamato a rispondere, nella migliore delle ipotesi, del talento di circondarsi sempre delle persone sbagliate, ha immediatamente licenziato coach e agente: «Sono stupefatto e sotto choc. Non faccio uso né ho mai usato doping. Non permetto che si dicano simili bugie su di me. Le prossime notizie le avrete dal mio avvocato».
Brutta storia, da qualsiasi angolo la si guardi. Dal punto di vista di Gatlin, innanzitutto, che ormai ha perso ogni credibilità nell’ambiente: già l’oro di Londra, battendo l’ultimo Bolt, era stato accolto dai fischi dello stadio e dal trattenuto disgusto del presidente della Iaaf Sebastian Coe («Non è una buona notizia per lo sport»), il giorno dopo la cerimonia di premiazione era stata anticipata per evitare che andasse in diretta sulla Bbc. A nulla era valso che Justin si inchinasse ai piedi del re del vento sconfitto. Chi sarà disposto a credergli, ora? Tra gogne mediatiche e sventure professionali (all’epoca lo allenava Trevor Graham: nove dei suoi atleti, Justin incluso, sono risultati positivi), senza mai prendersi la responsabilità delle squalifiche che gli sono state inflitte, il sopravvissuto più di successo dell’atletica mondiale (oro iridato a 12 anni di distanza dal primo e a 13 dal titolo olimpico di Atene) deve trovare l’ennesima via d’uscita da un vicolo cieco. «Avete fatto di Bolt un eroe e di me un bad boy – si lamentava a Londra sbandierando sette anni di controlli antidoping negativi (dal 2010, secondo ritorno, in poi)—. Perché mi trattate da cattivo? Ho pagato, sono pulito. Persino Usain è venuto a stringermi la mano...».
L’atletica si risveglia dall’incubo con un gran mal di testa. L’Integrity Unit della Iaaf e la Usada, l’antidoping americana, annunciano di avere aperto un’inchiesta sullo sprinter più chiacchierato del secolo (cosa hanno fatto, dov’erano fino a adesso?). A Coe si è ammosciato il ciuffo: «Queste accuse sono terribilmente serie. Dobbiamo stare più attenti su chi vogliamo nel nostro sport». Il mea culpa tardivo di Wagner («Chiedo scusa a Justin e alla sua famiglia se ho detto cose totalmente false su di lui») non servirà a far uscire indenne Gatlin dalla nube di dubbi e maldicenze che da sempre lo circonda. Ci ha zittiti a Londra però continueremo a chiederci: come fa un quasi 36enne scivolato due volte ad andare così forte?