Il Dubbio, 19 dicembre 2017
Bentornato Sciaboletta. Ritratto di Vittorio Emanuele III che regnò sull’Italia sbruffona e opportunista
Che la salma di Vittorio Emanuele III, per i nemici ’ Sciaboletta’ dato che con quei 153 cm scarsi di statura l’ironia sull’obbligo di forgiargli una spadina ad hoc era inevitabile, riposi in terra italiana è sacrosanto. Che detta salma sia arrivata in patria dall’Egitto, dove si era rifugiato dopo 46 anni di lunghissimo e travagliato regno, su aereo militare e che ad accoglierla ci fosse un mezzo tripudio di bandiere lo è ancor meno. L’eventuale e al momento improbabilissimo trasferimento del feretro da Cuneo al Pantheon sarebbe invece un’offesa al decoro ancora prima che alla storia o alla democrazia.
La strategia del governo, tutta centrata sull’understatement, si è già rivelata un boomerang e non ci voleva un consesso d’aquile per capire che sarebbe andata così. Il progetto era trasferire i poveri resti dell’ultimo sovrano alla chetichella, senza che se ne accorgesse nessuno. Una breve a fondo pagina. La famiglia del regale estinto, che nonostante il sangue reale non ha mai brillato per signorilità, non ha esitato un attimo a sgambettare i discreti necrofori di Stato rendendo l’evento fragoroso. Così la sordina decisa dallo Stato repubblicano si è trasformata in boomerang, perché mentre sventolavano le bandiere di casa Savoia nessuno si premurava di far sapere ai meno inclini allo studio della storia chi sia stato questo piccolo re che il parentado vorrebbe trasferire con tutti gli onori all’interno del Pantheon.
Capita così che mentre quattro scervellati in camicia nera a Cuneo vengono indicati come una minaccia per la democrazia e infuria una campagna antifascista che andrebbe rubricata nell’aborrito elenco delle fake news, il ruolo e le responsabilità del sovrano che consegnò a Benito Mussolini il Paese vengano trattate di sfuggita e quasi solo in seguito alle giustificate proteste della comunità ebraica e dell’Anpi.
Sciaboletta arrivò al trono relativamente giovane, 39 anni, e quando meno se l’aspettava. Doveva l’immatura ascesa a Gaetano Bresci, che il 29 luglio del 1900 giustiziò Umberto I per vendicare le vittime della repressione antioperaia del 1998: un’ottantina di cadaveri secondo le fonti ufficiali ma il conto è di certo molto sottostimato. Appena indossata la corona il piccolo re cercò di sanare la ferita sanguinante del 1898: concesse un’amnistia per i reati di stampa e «contro la libertà di lavoro», cioè gli scioperi con picchetti, scontò metà della pena ai condannati per i fatti del 1898. Fino ai primi anni Venti fu un monarca molto più aperto a sinistra dei suoi predecessori. Nei primi vent’anni di regno in Italia furono varate riforme di impatto enorme su tutti i fronti sociali: diritti dei minori e delle donne, incidenti sul lavoro, assistenza per i disoccupati, edilizia popolare, istruzione. C’era chi lo chiamava ’ il re socialista’.
C’era anche chi lo definiva ’ il re soldato’, perché tra il 1915 e il 1918 si recava al fronte quasi ogni giorno, poi la sera chiedeva rapporti dettagliati sulla situazione bellica e dopo Caporetto tenè botta in maniera più che degna.
La realtà è che il peggior re della storia del Regno d’Italia sarebbe probabilmente ricordato come il migliore se fosse trapassato nel 1921. Anche se il campo in cui era davvero versato non era la guerra e neppure la politica sociale ma la numismatica. Collezionava e studiava le monete con passione maniacale, trasferita in un trattato di suo pungo di venti volumi ( ma doveva essere più lungo: è rimasto purtroppo incompiuto): il Corpus Nummorun Italicorum.
Invece nel 1922 ’ il re socialista’ scelse di arrendersi alla Marcia su Roma, non perché apprezzasse particolarmente il capoccione di Predappio ma perché, come scrisse Indro Montanelli, «di Mussolini non si fidava completamente ma dei rivali si fidava anche meno». Nel 1925, quando, dopo la crisi conseguente al delitto Matteotti e dopo la disfatta del- l’Aventino, il duce colse l’occasione per instaurare la dittatura, re Vittorio non mosse un dito. Nel 1935 spalleggiò allo stesso modo la guerra d’Etiopia. Raggiunse l’apice della vergogna firmando le leggi razziali nel 1938. Due anni dopo era tra i pochi consapevoli della debolezza e dell’impreparazione militare italiana: lasciò tuttavia che il duce spingesse l’Italia in una guerra che l’esercito era in grado di sostenere.
Eppure Sciaboletta non era un fascista e non amava il fascismo. Mussolini sosteneva in privato che il re lo odiasse: probabilmente aveva ragione. Di certo era odiato dal re Adolf Hitler, che ricambiava senza cordialità. Più volte il Fuhrer insistette con i collega italiano perché si decidesse a fare fuori l’inutile orpello coronato e anche in privato una delle poche critiche che riservava all’italiano che gli aveva fatto da modello era proprio il non essersi sbarazzato con la dovuta drasticità del re. Ma se non fascista, Vittorio Emanuele fu certamente ignavo e complice, per debolezza, calcolo e pavidità in egual misura.
Ostaggi reciproci, il re e il duce non potevano liberarsi l’uno dell’altro come probabilmente entrambi avrebbero voluto. Gli italiani erano fascistissimi ma anche monarchicissimi, e viceversa. Solo i rovesci militari del 194243, convinsero Vittorio Emanuele di poter eliminare il socio e rivale. Ma anche in quel frangente estremo condusse le cose nel modo peggiore e firmò con Badoglio il disastro dell’ 8 settembre, quando l’armistizio con gli alleati lasciò l’esercito italiano allo sbando mentre i tedeschi occupavano l’Italia e il re numismatico riparava a Brindisi.
Vittorio Emanuele III è un simbolo: non del fascismo o della complicità col nazismo ma della miseria, della pavidità e dell’opportunismo delle classi dirigenti italiane. Che la sua salma torni in Italia è un gesto di civiltà. Esaltarla portandola a Roma sarebbe proprio l’opposto.