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 2017  dicembre 18 Lunedì calendario

Simone Di Stefano, leader di CasaPound: «Matteo, molla il Cav e fai la destra con noi»

Allora lei è l’uomo nero, devo avere paura? 
«Non siamo violenti, reagiamo». 
La democrazia deve aver paura? 
«Quando la Annunziata dice che con le carbonare voglio cancellare la democrazia, la gente a casa si mette a ridere. La sinistra usa l’allarme fascismo come un collante per restare insieme, in mancanza di argomenti politici o di successi di cui vantarsi». 
Però voi siete davvero fascisti... 
«Siamo i discendenti del fascismo, ma la stessa Repubblica Sociale aveva superato la dittatura, quando divenne chiaro che lo Stato totalitario favoriva la creazione di consorterie, che sono quelle che il 25 luglio tradirono. Nei 18 punti della Rsi era prevista l’elezione di un presidente e l’esistenza dei partiti. Oggi noi pensiamo che la democrazia sia uno strumento possibile per realizzare lo Stato che vogliamo e che questa Costituzione lo consenta». 
Come la mette allora con i blitz di CasaPound? 
«Li facciamo per rompere delle cortine fumogene e portare all’attenzione di tutti certi argomenti. Però non è violenza, li facciamo contro dei Palazzi, strappiamo bandiere». 
Assaltare i giornali o fare irruzioni in circoli di immigrati però... 
«Ma quello lo fanno gli altri. Gli elettori hanno capito la differenza tra noi e la destra radicale. I blitz contro i giornali aiutano chi vuol tenere alta la tensione contro i fascisti. Fanno comodo alla sinistra. Noi siamo diversi, più strutturati, come si vede dai numeri, e laici, mentre loro hanno una forte impronta religiosa». 
Però la destra radicale vi voterà? 
«Tra i venti arrestati a Livorno per i rifiuti tossici che dicevano “chi se ne frega se muoiono i bambini”, statisticamente la metà voterà Pd. È colpa di Renzi?». 
Cos’è il fascismo oggi? 
«Comunemente è una parola utilizzata per evocare una dittatura ma è una visione sbagliata. Lo Stato totalitario può avere diversi colori: rosso, nero, ma può anche avere una parvenza di democraticità, come è avvenuto in questi anni con l’Unione Europea, che è tutto tranne che rappresentativa dei popoli. Dall’euro al bail in al fiscal compact, hanno deciso tutto gli eurocrati. Ma l’Europa non è il solo caso». 
Mi faccia altri esempi... 
«La legge Scelba dice che chi cerca di zittire gli avversari con la violenza di fatto ricostruisce il partito fascista. Bene, seguendo il dettato della legge, dovrebbero sciogliere i 400 centri sociali presenti sul territorio: se non ci fossero loro, non esisterebbe violenza politica in Italia oggi. No global e affini pensano di essere depositari del diritto di sfasciare e picchiare». 
L’uomo nero è Simone Di Stefano, 41 anni, romano, vicepresidente e premier in pectore di CasaPound, il movimento neofascista passato in pochi anni dall’anonimato al 9% a Ostia, Lucca, Bolzano. Alle prossime elezioni punta al 5%. «Se ce la facciamo, poi diventa divertente» promette il candidato, reclutato sul tram quando aveva 15 anni da un segretario di sezione del Msi che lo vide con in mano il Secolo d’Italia, il giornale del partito. E già non è normalissimo per un ragazzo. 
«Ma io ero contro, vedevo l’Italia in malora e mi guardavo indietro per capire quando si dava il massimo per la comunità. Così sono diventato fascista. Già allora, con Fini candidato sindaco a Roma, si parlava di onda nera. Poi Fini ha deciso di fare il buono e io ho continuato a fare il cattivo». 
Fini voleva fare il premier. Le prime tre cose che lei farebbe da premier? 
«Fuori dall’euro e dalla Ue: bisogna riprendere sovranità monetaria e nazionale. L’Unione europea è il nemico, prima della moneta unica eravamo il quinto Paese più ricco al mondo. Lo Stato deve tornare a poter intervenire nell’economia per combattere la globalizzazione che ci ha impoveriti. E poi 500 euro al mese fino ai sedici anni per gli italiani che fanno figli: la famiglia è il futuro». 
Sarete di destra ma avete un programma di sinistra... 
«Mussolini era socialista. Noi però non siamo di sinistra, perché siamo per il libero mercato, entro determinati confini e regole, per abbassare le tasse. Non facciamo la guerra al “padrone”, ma al capitale, siamo per la casa e il lavoro sicuro per tutti e per far tornare gli italiani a fare figli. Le grandi aziende vanno bene, ma se perseguono l’interesse della nazione, non devono delocalizzare. Mi piaceva l’Iri». 
Siete un po’ democristiani? 
«Siamo italiani. Servono regole in economia. Lasciato a briglia sciolta, il capitale si alimenta da solo e mangia l’uomo, come sta succedendo». 
Passiamo in rassegna i suoi sfidanti alla premiership: Di Maio? 
«Inconsistente, nessuno sa cosa vuole. Cambia idea a seconda di come soffia il vento». 
Berlusconi? 
«È il passato. Anche se oggi è ancora un protagonista, dobbiamo dimenticarlo. Aveva tante doti ed è entrato nel cuore degli italiani ma quando ha sostenuto Monti, che aveva orchestrato il colpo di Stato contro di lui, ha perso la mia fiducia. Anziché ribellarsi ha privilegiato i propri interessi rispetto a quelli dell’Italia». 
C’è chi lo ha paragonato al Duce, è d’accordo? 
«Sotto elezioni una battuta sul Duce la fa sempre, perché sa che gli porta voti, ma Mussolini era un socialista, Silvio è per la rivoluzione liberale, socialista lo è stato solo con Craxi». 
Renzi? 
«È un curatore fallimentare per conto di Bruxelles. A parole critica la Ue, ma poi fa quello che gli dicono. Ora che lo attaccano tutti mi sta quasi simpatico, poi però si mette a parlare...». 
Perché oggi è in crisi? 
«Perché si è messo a sentire i pazzi che stanno nel suo partito e lo spingono in mille direzioni, dallo ius soli alla teoria gender, al fiscal compact. Lui è migliore del Pd, ha provato a essere una figura di riferimento ma non ha avuto la forza di procedere da solo». 
Gentiloni? 
«Non è nulla». 
Salvini? 
«Eravamo alleati, abbiamo fatto due cortei insieme». 
Aspetta una sua telefonata? 
«Se chiude con Berlusconi c’è un margine per tornare a parlare. Io sto cercando di rompere il centrodestra». 
Allearsi con CasaPound sarebbe rischioso per lui? 
«Se vuoi vincere, qualcosa devi rischiare. Certo, lui ha il problema dei governatori che vogliono stare con Silvio. Però è all’ultima chiamata, o stacca o resta il nipotino di nonno Silvio». 
Grasso e D’Alema? 
«Non hanno una visione di Stato, rientrano nel globalismo». 
Ma se sono comunisti... 
«La divisione destra e sinistra è fittizia. Oggi o si è globalisti o identitari». 
E la Meloni? 
«Le ho aperto io la porta al Movimento Sociale, poi nacque An e le nostre strade si sono divise. Lei non vuole diventare autonoma». 
Sì ma adesso ci parla? 
«Potrei parlarci ma Giorgia non vuole, ci vive come dei competitor: rappresentiamo quello che lei sarebbe potuta diventare senza rinnegare il passato. Solo che la Meloni preferisce fare la ministra di Berlusconi». 
Ha quarant’anni, è un grafico pubblicitario, davvero si sente in grado di fare il premier? 
«Certo, basta che l’Italia riprenda la propria sovranità e riscopra la propria identità di fronte alle difficoltà estreme in cui ci troviamo. Serve una guida politica, i tecnici sbagliano, non hanno una visione: servono ma vanno indirizzati». 
Perché CasaPound ha scelto proprio lei come candidato? 
«Sono un comunicatore chiaro e rassicurante. In tv non mi scompongo. Ho una pazienza zen che mi consente di farmi processare senza uscire di testa. Mi provocano, vogliono farmi passare per l’uomo nero ma alla fine sono io a tirare fuori il mostro che c’è negli altri». 
Ha vinto delle primarie? 
«Ma no, siamo un gruppo di ragazzi che ha iniziato quindici anni fa e ora è diventato un movimento grande con ventimila iscritti. Siamo sopravvissuti proprio perché non ci sono congressi, nessuno può comprarsi diecimila tessere e diventare segretario». 
Non è molto democratico... 
«In realtà il movimento non è leaderistico. Siamo un gruppo di comunità e ciascun responsabile locale ha il massimo dell’autonomia». 
CasaPound la stipendia? 
«Non sono un professionista della politica. Vivo del mio lavoro, ora ho dei rimborsi spese e un’integrazione dall’associazione per la promozione sociale di CasaPound. Credo di essere l’unico, malgrado quel che si dice noi non abbiamo un euro». 
E le inchieste sulle attività economiche del movimento: i ristoranti, i pub, le catene d’abbigliamento? 
«Ci finanziamo con i 15 euro dell’iscrizione e con le donazioni. Siamo un mondo di militanti, ciascuno dà una mano: se devo andare al ristorante, scelgo quello di un camerata, così con i vestiti e i negozi. Tutte le inchieste uscite su di noi sono piene di bugie ma nessuno ci interpella. In tv ci chiamano solo per farci dei processi». 
Perché se hanno tanta paura di voi non vi sciolgono? 
«Perché dovrebbero motivarlo e non possono: non siamo razzisti, non siamo xenofobi, la nostra posizione contro l’immigrazione ha delle basi socioeconomiche». 
Siete antisemiti? 
«Il fascismo è di natura inclusivo con tutte le identità della nazione e fino alle leggi razziali lo fu anche con la comunità ebraica: conosce Ettore Ovazza, l’ebreo fascista? O il ministro fascista dell’economia Guido Jung anche lui ebreo? Con le leggi razziali commettemmo un grave errore. Comprendo la rabbia della comunità ebraica nei nostri confronti ma noi non siamo antisemiti». 
E gli sfottò ad Anna Frank?
«Gli imbecilli in cerca di visibilità sono un male dei nostri tempi, non bisogna parlarne. Chi lo fa incoraggia i pazzi a esibirsi. Oggi fare un’idiozia ti porta a finire sulle prime pagine dei giornali, ma questo solletica malate manie di protagonismo». 
Mussolini fece un altro tragico errore: trascinò l’Italia in guerra... 
«Se vuoi essere una potenza mondiale non puoi chiamarti fuori da un confitto del genere». 
Ma si schierò con i nazisti... 
«Erano gli alleati del tempo, e ancora non si sapeva dell’Olocausto». 
Che però il Fuhrer non avesse tutti i venerdì a posto si intuiva... 
«Nella guerra mondiale ognuno partecipa in ragione del proprio interesse nazionale. Noi volevamo espanderci in Africa, il nemico era l’Inghilterra. La guerra doveva scoppiare a inizio anni Cinquanta, per dare all’Italia il tempo di ricostruire l’esercito dopo le campagne d’Africa e di Spagna. Hitler sui tempi fece una forzatura».