il Giornale, 19 dicembre 2017
«Servono un sacco di vaffa per essere davvero felici...». Intervista a Claudia Gerini
Jessica – quella del «’o famo strano», tanto per intenderci – è cresciuta. E ha vissuto mille vite. Iris Blond, la rockettara da fast food che strega Verdone. La moglie di Pilato ne La passione di Cristo di Mel Gibson. La donna in carriera tradita dal nauseato chirurgo Castellitto di Non ti muovere. Duchessa, la regina in nero di Kaspar Hauser. La single dalla doppia vita di Tulpa. La seconda moglie, nemica per la pelle della prima, Margherita Buy. La sorella di un boss. John Wick – Capitolo 2. Gianna non è un nome da tango. E nemmeno da mafia, ma è quello di Claudia Gerini nel primo dei tre film, contemporaneamente in circolazione nelle ultime settimane. Devota metà di «’o re do pesce» per i Manetti bros in Ammore e malavita. E la violoncellista di Nove lune e mezza, ambiziosa commedia dai temi seriosi come fecondazione assistita e utero in affitto, che in realtà diventa un utero in prestito per amor della sorella sterile. Stilemi da vecchi proverbi. Chi può non vuole e chi vuole non può. Sottinteso, diventare mamma. Insomma, dopo più di vent’anni, Jessica ce l’ha fatta. Ha dato alla luce un bebè sul grande schermo, ma non l’ha chiamato né Kevin né Maria.
Da «chiamamolo Kevin» a «la chiameremo Luna». Che cosa c’è in mezzo.
«Quasi un quarto di secolo di commedie. Viaggi di nozze era meraviglioso. È rimasto nella storia. E Chiamamolo Kevin ora è una citazione. Queste invece sono nove lune folli di una gravidanza folle».
Nomi come mode.
«Il Kevin degli anni Novanta era il divo Costner. Il macho. Il bello. Andava di moda come Luna oggi. Perché siamo tutti un po’ più lunatici. Però Jessica desiderava una bimba e voleva chiamarla Maria. Semplice. Bello. Romantico».
Questioni di maternità. È cambiata pure lei. Ora l’utero si affitta.
«In realtà, nel mio caso – cinematografico s’intende – è solo in prestito. Lo ritengo una forma di sfruttamento del corpo femminile e, come tale, condannabile. A meno che...»
A meno che cosa.
«Se una donna è consapevole. Se non è costretta dalle necessità o dalla fame a dare alla luce un bambino per poi venderlo. Se ha parametri di istruzione e cultura che le permettano di distinguere il bene dal male. Allora forse si può anche fare».
Lei accetterebbe?
«Non ne sarei capace. Non lo ammetterei né fisicamente né moralmente».
Nel film è un gesto d’amore verso sua sorella.
«È tenerezza. La aiuto a realizzare un sogno impossibile. Però c’è chi lo fa per soldi. E, diciamocelo, questa è una forma di prostituzione».
Chi non può aver figli è pronto a qualsiasi passo.
«Non ricorrerei mai alla maternità surrogata. Allora, meglio adottare».
Ma in Italia è difficile.
«E non solo in Italia. Eppure darei un bambino anche a un single. Se può mantenerlo. Se ha tempo e amore, per quale motivo negarlo».
Perché la famiglia è composta da mamma e papà.
«Anche chi vive solo, però, può essere un ottimo genitore».
Quando stava per partorire, nel film, era terrorizzata.
«Effettivamente il dolore è abbastanza forte su quel lettino».
E il ricordo del male rimane anche dopo.
«Macché, sparisce al primo vagito. Parlo per esperienza. Da mamma».
Allora da primipara violoncellista ha detto una bugia.
«È che non si ripensa ai dolori».
Le menzogne la fanno ridere o arrabbiare.
«Bisogna raccontarle bene (ride), questo è il segreto. Sinceramente, non mi riconosco nel concetto. Sono convinta che siano tutte verità. Dipende dalla prospettiva. Le verità di uno possono essere frottole per l’altro. L’autenticità ha mille volti».
Il cinema è bugiardo?
«Descrive una realtà romanzata. Edulcorata. A volte esagerata. Ma sempre dal punto di vista di quel regista. E quell’ambiente emotivo».
Quindi sono tutte fandonie.
«Ogni giorno succedono cose assurde. Impensabili da scrivere in un copione, ma la vita ci sorprende. Poi quando le vediamo là, sul grande schermo, scatta l’ennesimo Sì vabbé, solite scene da film. E invece».
Invece accadono. E riviviamo sensazioni e sentimenti. La paura, ad esempio. Che cos’è.
«Non sapere da dove arriva il male. Ignorare che cosa ci aspetta al di là della porta».
L’ha mai provata.
«Non sono una fifona. Non mi spaventa il buio né il vuoto. E neppure i famigerati insetti. Però non sono un supereroe. Pardon, una super eroina. E quando mi hanno rapinata me la sono vista brutta davvero».
Perché.
«Mi sono ritrovata la canna di una pistola in faccia».
Quando è capitato.
«Ero una ragazzina, in compagnia di una mia amica. All’improvviso eravamo sotto tiro di quell’arma».
Cosa vi hanno fatto.
«Ci hanno portato via tutto l’oro che avevamo. È stato terrore. Puro».
Dove è successo.
«In una strada di periferia a Roma Nord. Fu un incubo».
Scommetto che le armi di «Ammore e malavita» però la hanno fatta divertire.
«Moltissimo, ma il mio personaggio, donna Maria...».
Che non è la figlia di Jessica...
«Ma a Jessica assomiglia molto, ebbene, donna Maria dicevo, è stata una sfida. Volevo renderla in modo non caricato né caricaturale, ma carico di movenze e gestualità. Alla napoletana, insomma».
Un film su Napoli fatto da due registi romani, i Manetti bros, e Claudia Gerini.
«La amano. La conoscono benissimo e la sanno raccontare perché ne scovano le parti più belle. Io l’ho riscoperta attraverso i loro occhi».
Però recitare in dialetto, senza essere napoletana...
«C’è un po’ di Vesuvio nel mio dna, confesso. Mio nonno materno era di Afragola. È morto quando avevo dieci anni, ma lo ricordo bene. Poi avevo Buccirosso che mi ha fatto scuola. Io ci ho messo orecchio».
Da brava cantante.
«Ho il dono di riuscire a riprodurre i suoni. Parlare francese, spagnolo e inglese mi ha aiutato ad affinare questa capacità. Anche con il napoletano (sorride)».
A proposito di musica, chi è davvero. La rockettara Iris Blond o la raffinata violoncellista.
«Iris Blond, senza dubbio. Mi piace cantare e ballare, sono una showgirl mancata. Adoro stare dentro le canzoni e raccontare i sentimenti».
E il violoncello?
«È lo strumento più bello. E può essere pizzicato. Forse è l’unico».
Che significato ha la musica.
«È la mia spina dorsale e l’ispirazione. Una delle gioie della vita».
Quali sono le altre.
«I viaggi. I figli. L’amore».
In libreria l’ho vista prendere in mano «Che ci faccio qui» di Bruce Chatwin, un viaggiatore. O forse. Il. Viaggiatore.
«È il mio libro preferito. Bellissimo. Fatto di grandi avventure. Sono un sagittario con un’impronta marcata e il desiderio di scoprire luoghi che non conosco».
Esplorazione più che turismo.
«Amo vivere l’atmosfera del Paese che visito. Voglio mangiare come chi vive là. Incontrare sconosciuti. Chiacchierare con chi non ho mai visto, farmi dire la sua storia e, se capita, raccontargli la mia».
Improvvisazione o programmazione?
«Ho fatto viaggi pazzeschi, che si fanno solo in gioventù. Quando si è liberi davvero. Si sapeva il giorno della partenza, non quello del ritorno».
La meta più pericolosa.
«In Cambogia, quando non era ancora un itinerario convenzionale nelle brochure delle agenzie».
La più sicura.
«In Messico con le mie figlie di 7 e 12 anni. Ma quando sono partita ho trovato comunque chi mi rimproverava. Vai da sola con le bimbe...».
E lei è partita lo stesso.
«Certo. Che cosa c’è di male se una mamma vuol far vedere posti nuovi alle sue bambine. Sono viaggi un po’ diversi da quelli che facevo in passato. Comodità. Alberghi belli. È tutto più semplice. Come dire, c’è un tempo per ogni cosa».
La destinazione più scontata.
«In Spagna. Avevo 25 anni e ho preso casa a Madrid. Dovevo fare un film ed ero sola».
Sola...
«Oddio, veniva a trovarmi il mio fidanzato di allora e avevo molti amici. Se non si vive il tessuto sociale dei posti che si visitano, viaggiare non serve. Ho abitato anche a Parigi e ho voluto viverci alla francese».
E poi la «rivale» Milano.
«Perché rivale?»
Lei è romana...
«A Milano mi lega un matrimonio. Ho sposato un milanese (Alessandro Enginoli, presidente in Assolombarda ndr) tempo fa. Ma, a parte questo, è una città che adoro».
Che cosa le piace.
«È una lunga storia».
Ce la racconti.
«Ho iniziato a venirci per la moda, le sfilate. E in quelle occasioni mi sono creata amicizie che ancora mi accompagnano. Poi ci sono state le nozze. Alla fine pure un film».
«Il mio domani» di Marina Spada, nel 2011.
«Io ero una donna che viveva un’esistenza fatta di casa, lavoro, ossessioni paterne e una relazione con un uomo sposato. Insomma, un inferno dal quale uscivo, voltando pagina. Fu l’occasione per entrare in confidenza con una Milano che non immaginavo. Era la coda dell’estate e le vie erano vuote. Deserte. Tutti in vacanza, tranne i cantieri dei grattacieli. L’ho scoperta anche da una prospettiva antropologica».
Ma la cosa più bella di Milano non è il treno per Roma...
«Direi proprio di no. Forse lo era una volta, quando era così grigia...».
Molti viaggi, poco tempo a casa.
«Credo che il destino di un’attrice sia peregrinare. Nella propria e nelle altrui vite. Viverle tutte. Quelle che si può, almeno. Essere quelle persone. Poi, i caratteri sono diversi. C’è chi non si muove mai».
Un giorno si stuferà e passerà dietro la macchina da presa. Così fan tutti.
«Non farò mai la regista. Prometto. Anzi giuro».
Che cosa c’è che non le piace.
«Non è il mio mestiere. Non ho quella pazienza».
In «Nove lune e mezza» la chiamano vegetale anziché vegetariana.
«Mi definirei ex carnivora, nel senso che mangio poco volentieri gli animali. L’unica eccezione è qualche petto di pollo ogni tanto».
Che cosa c’è sulla sua tavola.
«Vegetali. Cereali. Legumi. Zuccheri e farine raffinate. Mi trovo molto bene con le verdure fresche a chilometro zero. Ho una dieta più salata che dolce. Anche a colazione. Tengo bassa la glicemia. Però, ammetto, non sono vegana».
Come è nata questa scelta.
«Ho letto The China study del nutrizionista Colin Campbell e ho cambiato vita. Poi è scientificamente provato che le carni rosse sono cancerogene. Quindi limitiamo i rischi».
Le piace molto leggere, non va mai al cinema?
«Ci vado, ci vado. Due o tre volte al mese sono lì».
Che cosa guarda di preferenza.
«Scelgo a istinto. Non ho categorie prestabilite. Italiani, francesi o americani. Dipende da quello che mi ispira. Di solito però sono storie, commedie o genere sentimentale».
L’ultimo che ha visto?
«Ammore e malavita (ride)».
Che effetto fa rivedersi sul grande schermo.
«È stupendo. Non smettevo più di ridere. Se poi piace e se ne ha un buon ricordo è una soddisfazione enorme».
Conserva i dvd dei suoi film?
«Ne ho girati più di 57, molti da protagonista e altri con un ruolo più piccolo. Cerco di collezionarli tutti, ma c’è sempre qualcuno che me li ruba, chiedendomeli in prestito. Però, a casa mia, la zona Gerini c’è».
In «Nove lune e mezza» dice che «la strada della felicità è lastricata di vaffa». Ci crede?
«Eccome, se è vero. Purtroppo».
Quanti ne servono?
«Troppi per essere felici».