il Giornale, 19 dicembre 2017
Ma per la morte di Stalin il popolo dei moralisti impose il lutto all’Italia
Una pessima dinastia, con un ottimo ufficio stampa, gli storici «sabaudisti» (dal 1830, per un secolo, gli archivi furono gestiti da un paio di famiglie, per «aggiustare» le versioni dei fatti in senso favorevole ai monarchi subalpini, incluso censura e distruzione di documenti, cui a volte provvide il re): questo fa la differenza fra i Savoia e i Borbone di Napoli. Il rientro clandestino, con aereo di Stato (!?), dei resti del più discusso dei sabaudi, ripropone il confronto, squilibrato da un secolo e mezzo di diffamazione dei re delle Due Sicilie.
Che lo si facesse nell’infuriare di sentimenti e armi del tempo, si può comprendere ma non giustificare; che si continui ora, no. «Re soldato» Vittorio Emanuele III? Scappò dinanzi al nemico, pensando solo a se stesso e abbandonando, senza istruzioni («Si arrangi», rispose a chi ne chiedeva) capitale ed esercito: 810mila militari catturati dai tedeschi finiscono nei lager o trucidati, come a Cefalonia.
Mentre da Sud arriva Garibaldi con i suoi Mille (più la legione straniera inglese, e quella ungherese, e circa 20mila finti disertori piemontesi, e migliaia di picciotti a 4 tarì al giorno, e persino veri idealisti unitari: totale più di 50 mila) e da Nord si muove l’esercito sabaudo senza manco dichiarazione di guerra, Francesco II di Borbone si ritira nella fortezza di Gaeta per resistere, perché «io sono napoletano, si perda il trono e la reggia, e si salvi Napoli» (il deputato Castagnola: «Noi siamo piemontesi, piuttosto che tornare indietro, bruciamo Napoli e tutto il reame»).
«Angelo di Messina» la regina Elena? Ci può stare. Ma senza dimenticare che a soccorrere i terremotati dello Stretto furono i russi, gli inglesi, i tedeschi, i francesi, gli statunitensi; e i «fratelli d’Italia», con tutto comodo, dopo giorni, inviarono diecimila bersaglieri con un milione di proiettili e cominciarono a fucilare sul posto i superstiti per «sospetto sciacallaggio»: leggete i resoconti degli inviati dei maggiori quotidiani, che ne furono testimoni. Si aprì un ufficio postale solo per far spedire dai militari a casa i pacchi di quanto razziavano; in parlamento si propose di bombardare le macerie (con i sopravvissuti sotto), cancellare la città e dividerne il territorio fra Palermo e Catania (per gli increduli: materiali all’Istituto Salvemini, Messina).
«La dinastia che fece l’Italia» volle solo «allargare il Piemonte» (detto dal capo del governo in parlamento, 1866). Nella prima guerra d’indipendenza, 1848, gli Stati italiani preunitari si unirono ai Savoia contro l’Austria (ma nei libri di storia è taciuto l’apporto, a volte decisivo, dei soldati napoletani). I Borbone proposero il congresso per fare la Lega italica. Ma l’Italia federale non nasce, perché «disgraziatamente il Governo di Torino si mostra restìo», scriverà Pio IX, deluso come tutti.
L’Italia si fece, ma sabauda e con il sangue. Il ministro Manna, nel rapporto sul censimento del 1861, scrive che per la «guerra» (detta Brigantaggio), si trovano 458mila italiani in meno, rispetto alla normale crescita demografica (atti parlamentari). Cesare Correnti e Pietro Maestri, padri della nostra demografia, con i dati del ’61, scoprono che in molti distretti del Sud, appena arrivano le truppe sabaude, la popolazione smette di crescere e, in un pugno di mesi, cala di 120mila (archivi Istat).
Il reddito pro-capite dei duosiciliani non era inferiore a quello degli altri italiani (l’arretratezza la inventò Benedetto Croce, mostra lo storico John Davis) e non esisteva emigrazione dal Sud; dopo anni di stragi, carcerazioni e deportazioni in massa, i terroni emigrano per la prima volta nella storia. Oggi il reddito pro-capite è circa la metà che al Nord, e niente treni, autostrade, aeroporti, investimenti pubblici.
Con i Borbone e poco più di 9 milioni di abitanti, il Sud aveva più addetti all’industria di ora, le più grandi officine ferroviarie, i più grandi cantieri navali, il più vasto complesso siderurgico, i due terzi dei soldi circolanti in Italia. A Torino per i poveri c’era la galera per «vagabondaggio», a Napoli il re costruì per loro l’«Albergo» che è ancora il più grande edificio pubblico d’Europa.
Non si tratta di rimpiangere, ma di ricordare, per capire. Se volete sapere perché, al referendum monarchia-repubblica, il Sud votò per la prima, chiedete a uno psicanalista, magari il grande Luigi Zoja o leggete il suo studio sui popoli colonizzati (Contro Ismene).