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 2017  dicembre 19 Martedì calendario

I miei viaggi a matita alla fiera dell’Est. Intervista a Craig Thompson

Ho cominciato a lavorare nei campi d’estate a 10 anni, 40 ore a settimana. Con mio fratello aiutavamo a diserbare e preparare i terreni prima della semina. Eravamo gli unici bianchi a farlo, forse siamo stati l’ultima generazione di bianchi a fare quei lavori che oggi sono affidati ai migranti. Ma da ragazzini poveri della working class eravamo contenti perché ci pagavano un dollaro l’ora. Che per noi voleva dire avere la possibilità di comprare fumetti».
Parte dal cuore dell’America rurale il lungo viaggio di Craig Thompson: nato nel Michigan 42 anni fa, ha passato infanzia e adolescenza nella campagna del Wisconsin in un paese di mille abitanti. Un contesto sociale che ha descritto nel graphic novel Blankets (2003), storia d’amore autobiografica, suo primo successo mondiale. Ma la matita di Thompson è da anni una finestra aperta verso destinazioni lontane e generi diversi. E Carnet di viaggio (Rizzoli Lizard), appena ripubblicato con tavole inedite e aggiornate, è il racconto del suo viaggio in Europa (Francia soprattutto) e Marocco. «La curiosità che ho da adulto nasce dall’isolamento che provavo da bambino. Non solo perché la casa più vicina era a un miglio di distanza, ma anche perché sono cresciuto in una famiglia di cristiani rinati, tra prescrizioni religiose molto rigide. Io e mio fratello Phil abbiamo cominciato a inventare il mondo sulla carta».
Il suo diario di viaggio racconta i primi mesi del 2004. Stava cominciando a ideare Habibi, imponente graphic novel ambientato in un Medio Oriente immaginario. Sarebbe uscito nel 2011, dopo sette anni di lavoro.
«Uno dei temi principali di Habibi è l’interconnessione tra le tre grandi religioni monoteiste. Per realizzarlo ho letto il Corano e studiato l’arte islamica. Oggi c’è un problema nella rappresentazione culturale e mediatica dell’Islam, a causa dei terroristi che utilizzano questa religione per i loro scopi, ma andando direttamente alla fonte, leggendo il Corano per la prima volta, ho trovato molta bellezza.
Ora non mi identifico in nessuna fede, credo però che ci sia qualcosa di più della percezione umana e che religione, arte, scienza, siano vie per esplorare questo “qualcosa”».
In “Carnet di viaggio” descrive con grande sincerità anche lo shock culturale di un giovane americano per la prima volta in Marocco.
«All’epoca tutto per me era nuovo: avevo 28 anni, non avevo frequentato l’università perché non me lo potevo permettere e non avevo mai conosciuto un musulmano in vita mia. Mi percepivo come una persona povera – e per gli standard del mio Paese lo ero – ma agli occhi dei ragazzi marocchini io ero il “ricco americano”. Parlando con loro ho scoperto che eravamo cresciuti con gli stessi valori, ascoltando storie molto simili da bambini».
L’America di Trump non sembra così curiosa nei confronti del mondo.
«C’è uno stereotipo per cui l’America è composta dalla East Cost, dalla West Coast e in mezzo ci sono tanti stati isolati che tendono a essere repubblicani. Ma c’è qualcosa di vero. Penso ai miei genitori: semplicemente, non sono interessati al resto del mondo.
Nella comunità rurale dove sono cresciuto mancava quel senso di preoccupazione globale. Mio padre e mia madre hanno votato per Trump. Per me è incomprensibile, loro sono working class e lui rappresenta l’opposto. Eppure lo vedono come un personaggio anti-establishment, cosa che assolutamente non è».
Quella America rurale e religiosa è protagonista in “Blankets”, che però nella sua preparazione è stato influenzato anche dalla cultura europea.
«Due letture fondamentali sono state Ada di Vladimir Nabokov e Dalla parte di Swann della Recherche di Marcel Proust. Avevo bisogno di romanzi labirintici, che esplorassero l’interiorità dell’autore, perché volevo fare un fumetto così. Era una sorta di ribellione contro l’etichetta ancora appiccicata ai comics all’epoca, che dovevano essere per forza storie d’azione. Quando ho cominciato a lavorare a Blankets avevo 23 anni ma provavo già nostalgia per certi momenti della mia infanzia e per gli amori della mia adolescenza. E anche in questo Proust mi ha aiutato».
È partito da fumetti autoprodotti per cambiare spesso genere arrivando anche alla fantascienza con “Polpette spaziali” (2015). E ora?
«Ho diversi progetti. Avevo cominciato a lavorare su un fumetto erotico, ho letto molto Crepax. E ho un’idea per un sequel di Polpette spaziali che ha a che fare con i rifugiati siriani. Ma il mio nuovo lavoro riguarderà la medicina cinese».
Un nuovo viaggio.
«Io e mio fratello siamo appena stati in Corea e in Cina a fare ricerche per il fumetto.
Paradossalmente è un ritorno alle mie origini, a quei campi nel Wisconsin. Lì coltivavamo il ginseng, le cui radici sono utilizzate nella medicina cinese.
C’erano immigrati dal Laos e dal Vietnam. Da ragazzino non avevo alcun interesse per quelle persone. Ma crescendo spesso ho pensato: se solo avessi parlato la loro lingua, quante storie mi avrebbero potuto raccontare. Sì, anche questo fumetto nasce dalla mia curiosità».